“Tentano di buttarci fuori dalle elezioni. È un problema che attiene alla democrazia: mi appello al presidente della Repubblica”. Così strillò Roberto Formigoni, presidente della Regione Lombardia, quando nella primavera del 2010 il suo listino fu momentaneamente escluso dalla competizione elettorale (per essere poi riammesso all’ultimo momento). Tutta colpa di un esposto dei radicali guidati da Marco Cappato, i quali sostenevano che circa 400 delle 3.800 firme a sostegno della lista “Per la Lombardia” erano false.
Avevano ragione. Anzi, le firme false erano molte di più, almeno 800. È quanto ha provato, dopo un’indagine lunga e meticolosa, il procuratore aggiunto di Milano Alfredo Robledo.
Ora una decina di consiglieri comunali e provinciali, che hanno garantito l’autenticità di quelle firme, sono indagati per falso ideologico e falso in atto pubblico. La prova, dicono negli uffici della procura milanese, è “solida e granitica”: i carabinieri della polizia giudiziaria hanno chiamato in procura, nella massima discrezione, uno a uno molti dei firmatari, almeno un migliaio. Ottocento circa hanno detto: la firma è falsa, il mio nome è stato messo in calce alle liste, ma nessuno me lo ha mai chiesto. Così ora rischiano gli uomini del Pdl – una decina, tra cui i consiglieri provinciali Massimo Turci e Barbara Calzavara – i quali hanno garantito che invece le firme erano autentiche e regolarmente raccolte. Se a fine indagine saranno mandati sotto processo, rischieranno una condanna da 2 a 6 anni di reclusione.
La vicenda iniziò il primo marzo 2010, quando la Corte d’appello di Milano escluse la lista Formigoni, accogliendo il ricorso dei radicali. Il 6 marzo, però, il Tribunale amministrativo regionale accolse la richiesta di sospensiva presentata da Formigoni e riammise il listino. Decisione confermata dal Tar il 9 marzo e poi, il 13, anche dal Consiglio di Stato, a cui si erano rivolti gli esponenti della lista Bonino-Pannella e la Federazione della sinistra.
Le polemiche sulle firme seguivano quelle sui nomi inseriti all’ultimo momento nel listino bloccato (cioè a elezione garantita) di Formigoni. Tra loro, i candidati imposti da Berlusconi: Nicole Minetti, allora sconosciuta igienista dentale, e Giorgio Puricelli, ex fisioterapista del Milan. Entrambi (si scoprirà poi) presenti ai festini a luci rosse di Arcore.
Nella vicenda fu coinvolta anche la cosiddetta P3, perché Formigoni chiese aiuto agli amici del gruppo di pressione a cui appartenevano l’imprenditore Arcangelo Martino, il tributarista Pasquale Lombardi e il faccendiere Flavio Carboni, affinché intercedessero presso i giudici che dovevano sull’ammissione della lista.
“Ma questo Lombardi è in grado di agire?”, chiede Formigoni al telefono (intercettato) di Martino, il 1 marzo 2010. Lombardi ci provò. Tentò di fare pressioni su un magistrato, Alfonso Marra, che gli uomini della P3 avevano aiutato a diventare presidente della Corte d’appello. Marra, però, si rifiutò d’intervenire.
“Il presidente Formigoni ora si deve dimettere”, chiede Marco Cappato. “L’indagine della procura di Milano ha fatto emergere una quantità di falsi superiore a quella che avevamo trovato con i nostri mezzi. Si tratta di una truffa elettorale realizzata attraverso un’attività di falsificazione massiccia che non può che configurare il reato di associazione per delinquere contro i diritti civili e politici dei cittadini. A capo di questa associazione c’è un responsabile che spetterà alla magistratura individuare, senza limitarsi agli esecutori materiali”, continua Cappato. “Il presidente della Regione Lombardia ha mentito sapendo di mentire. Per questo, per la parola tradita, si deve dimettere”.