Partiamo da alcuni dati. Primo dato: l’Organizzazione Mondiale della Sanità, in base ai dati del 2004, ha stimato che la depressione è cresciuta di circa 2-3 volte rispetto agli anni ’50. Secondo dato: nel decennio 1950-60, avviene quella che viene definita la rivoluzione psicofarmacologica con la scoperta degli effetti psicotropi di alcune molecole. Terzo dato: il 93% degli indiani Hopi, tribù del Nuovo Messico, dichiara che non esiste nella loro lingua un termine per nominare quella che noi definiamo depressione. Quarto dato: uno studio dell’Istituto Mario Negri ha dimostrato che in Italia 28.000 giovani sotto i 18 anni già assumono antidepressivi.
Nel 2001 esce in Francia un interessante libretto, pubblicato nel 2010 in Italia da Bollati Boringhieri: L’industria della depressione. Philippe Pignarre, che ne è l’autore, ha un curriculum interessante. Prima di scrivere questo libro, è stato per anni direttore della comunicazione di un’industria farmaceutica francese. In questo libro, Pignarre ci dà l’opportunità di entrare nel vivo dei meccanismi dell’industria farmaceutica applicata alla salute mentale, ed è l’occasione per apprendere altri fatti interessanti. Commercializzare un farmaco prevede infatti operazioni complesse. Da una parte gli studi clinici che devono affermare che quello specifico principio attivo è statisticamente efficace per ridurre quel gruppo di sintomi che vengono definiti come depressivi. Dall’altra, che forse è la vera battaglia, il processo di socializzazione culturale e commerciale di quei sintomi. Questo processo, prevede una serie di azioni che hanno come obiettivo la creazione del contesto, di un mercato. In poche parole, la creazione e la percezione in quanto tale di una domanda. Secondo passo, quasi ovvio, è quello di associare tale domanda ad un prodotto. Le logiche del marketing insomma, sia che si tratti di antidepressivi, sia che si tratti di cibi precotti, sono le stesse. Prima di vendere l’antidepressivo, c’è da vendere e commercializzare la depressione. Non puoi vendere il Prozac agli indiani Hopi senza prima fargli capire che sono depressi.
A proposito degli studi di efficacia clinica degli antidepressivi, lo psichiatra italiano Paolo Migone, co-direttore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane, in un recente articolo ci racconta un’altra storia molto interessante. Irving Kirsch, uno psicologo americano che nutriva dei dubbi sulla reale efficacia degli antidepressivi di seconda generazione, riuscì a procurarsi i dati delle sperimentazioni dalla Food and Drug Administration, l’organismo deputato al controllo e all’approvazione dei farmaci. Kirsch sottopose ad analisi questi studi e fece alcune curiose scoperte che pubblicò in una rivista di settore nel 2002. Una di queste, riportata da Migone nel suo articolo fu che: “il miglioramento dovuto al placebo aveva una dimensione pari all’82%, e quindi solo il 18% della risposta positiva era dovuta all’SSRI (l’antidepressivo, ndr), la rimanente tutta al placebo. Un altro modo di dire la stessa cosa è che solo il 10-20% dei pazienti depressi che migliorano sente l’effetto del farmaco (da cui ne consegue che l’80-90% sente solo l’effetto placebo)”. Ma Kirsch scoprì anche altre cose: più della metà (il 57%) degli studi finanziati dalle case farmaceutiche per definire l’efficacia degli antidepressivi di seconda generazione fallirono. Ovverosia definirono che l’effetto placebo era statisticamente più significativo del principio attivo dell’antidepressivo in questione. Fin qui nulla di male si dirà. Peccato che questi studi non furono diffusi né pubblicati nelle riviste specialistiche.
C’è quindi da capire adesso: chi va dagli indiani Hopi a dirgli che la depressione la puoi curare anche con i 4 salti in padella.
di Alessandro Lombardo, Centro Psicologia Psicoterapia Torino