Ostinarsi a guardare Bologna come se fosse l’ultimo avamposto della democrazia all’italiana è quanto di più anacronistico e sbagliato. Bologna si è evoluta in peggio, come il resto del Paese. E dell’Europa. Non è più la città di Dozza né quella di Zangheri o Imbeni come può capitare di pensare a chi esce al casello di Casalecchio o San Lazzaro. Non è la città che si rialzò dopo la bomba fascista del 2 agosto e andò a scavare tra le macerie a mani nude. Non è niente di tutto questo, Bologna.
Forse è ancora, grazie ai bolognesi, la città in cui si vive meglio in Italia, quella che ti accoglie a braccia aperte, consapevole che chi entra porta un gruzzolo di soldi, modesto o importante che sia. Ma che la smettano gli elettori di sinistra nel considerarla la loro capitale. Altrimenti è meglio cambiare partito. O città, dipende dai punti di vista.
Se lo era, non lo è più. E chi si è portato via l’odore della Rive Gauche ha un nome e cognome. Più di uno. Il primo imputato (omicidio-suicidio, l’accusa) è il Pd. Il partitone, una volta persi i pezzi per strada e quando si accorse che un Giorgio Guazzaloca qualsiasi poteva prendersi il loro centro di potere, non solo è rimasto a guardare, ma ha reagito nel peggiore dei modi, rifilando a Bologna un nome come quello di Sergio Cofferati, il gangster che avrebbe dovuto sterminare qualsiasi voglia di berlusconismo e, in realtà, a conti fatti, è stato uno dei peggiori sindaci dal dopoguerra a oggi. Non per quello che ha fatto, ma quello che non è riuscito e non ha avuto voglia di fare. Quell’alchimia che doveva crearsi non c’è stata né al primo incontro né durante i cinque anni di governo. Lui, il cinese, come l’avevano ribattezzato ragazzino a Botteghe Oscure, arrivava il lunedì come qualsiasi pendolare e se ne andava al venerdì mattina. Per Cofferati era un ufficio e i bolognesi non sono fessi, l’hanno capito e ricambiato con un arrivederci senza grazie.
Eppure una seconda possibilità al partito (che nel frattempo non era più “one”) la città l’ha data, con Flavio Delbono, salvo poi rimanere in stato di choc per quello che ha combinato, dal Cinzia gate alle ombre di una presunta corruzione.
Nella disperazione più totale dettata dall’assenza di una classe politica capace di governare i bolognesi hanno provato a mandare giù anche il commissario prefettizio, Annamaria Cancellieri e il suo filo di perle. Che alla fine è stata una zia alla fine benvoluta, ma niente di più. Ha lasciato il suo mandato firmando l’ennesima ordinanza di divieto (è governare?) e si è congedata dicendo che la città “l’ha capita”. Certo, probabilmente è vero. Ma l’ha capita e salutata volentieri. Consapevole comunque che dietro l’angolo c’è quasi niente.
In quel poco c’è un centrosinistra che porta alle primarie 28 mila persone, vero, ma deve ringraziare l’effetto di Amelia Frascaroli. Altrimenti si sarebbe preso una tranvata in testa. La soluzione più lineare, dopo una notte che sembra non finire, sarebbe stata quella di andare in ginocchio da Prodi a supplicarlo di candidarsi, ma il vertice del Pd questo coraggio non l’ha avuto.
Ne è uscito il nome di Virginio Merola, niente di pretenzioso, ma organico al partito. E alla fine la spunterà, anche perché il Pdl, ormai a pezzi ovunque, ha lasciato carta bianca alla Lega e a un candidato del Carroccio. E la Lega a Bologna non vincerà né oggi né mai, perché il Dna della città è cosa opposta al criterio del fora dai ball.
A questo punto aspettiamo al varco Merola (il civico Aldrovandi sa che può competere per il secondo posto) perché smentisca tutti. Successe già con Imbeni, arrivato a Palazzo d’Accursio come un grigio uomo di partito e scopertosi, strada facendo, uno dei migliori.
Aspettiamolo Merola, consapevoli però che – vinca o meno – una nuova stagione è già iniziata. La politica, prima di quanto si pensi, è destinata a trasformare di nuovo i propri equilibri. La fine dell’epoca Berlusconi aprirà spazi nuovi. E ci sarà da scavare tra le macerie anche queste volta.