ormai senza compagni.
Come folli Colombo
hanno certezza e cercano un altro mondo.
Nel loro navigare
sono esposti al rischio
di ammutinamenti
per mano di balordi equipaggi
capaci di feroci efferatezze.
Siamo noi i morti di Lampedusa?
Popoli interi cercano nel silenzio, il silenzio del loro dolore, che rimbalza dalle miserie più assurde alle più inutili luminescenze.
Naviganti senza porto, attratti da falsi fari che illuminano approdi corsari dove mercenari di turno indicheranno loro le fogne a cielo aperto delle nostre città per renderli schiavi senza padrone, dunque senza nemmeno la possibilità di riconoscere se stessi nel ribellarsi.
E il buonsenso di noi altri, che si fa complice, per sua natura, di uno sterile e ormai continuo bla-bla-bla non ci esime dalla condanna che potremo evitare soltanto urlando e immaginando nuove positive follie.
Positive follie che ci portino lontano da questa depressa vita dove cuore e cervello ci rodono dentro come il morso di un feroce “cane nero”.
Sana follia verso una serena scoperta dell’ignoto. Come se ci fosse un nuovo mondo lì ad aspettarci, con le nostre attitudini, i nostri talenti, le nostre umane pigrizie e passioni. Avendo il coraggio, lontani dall’ignavia, di affrontare qualsiasi isola-montagna, cercando e trovando quel che i pirati dell’anima avevano sotterrato della nostra natura. Trasformeremo qualsiasi purgatorio, inferno o paradiso terreni in un’altra vita possibile, dove nessuno potrà compiere il più doloroso dei delitti, attribuirti qualcosa che non hai, qualcosa che non sei. Nessuna suadente sirena sarà più capace, smascherata, di usare l’insinuazione, lo spargere zizzanie e tutte le piccole paure non si trasformeranno in spaventevoli metastasi per un possibile nuovo pensiero laico: l’amore per sé stessi e poi per gli altri, non più dunque disabili affettivi ma riabilitati alla vita capaci di commozione per chi non conosci e per chi verrà. E chi verrà vedrà i tuoi e poi i nostri segni come gigantesche piramidi di bellissima responsabilità. Un eterno “ti allatto amore mio”. E riconoscerà i campi arati e vigne grondanti vino. Secolari ulivi del passato che indicano un obbligo verso il futuro. Il “ti lascio un mondo migliore figlio mio, amico mio, donna o uomo mio, paese mio”. Un’etica del fare e del fare insieme come figli di una Madre e un Padre che non sono nei cieli ma in terra, in una terra consacrata da chi ci ha piantato un albero o costruito una casa. Terra di occasioni infinite, di tramonti e di albe infinite in una vita che infinita non è.
Non come dispersa polvere di stelle ma come stelle in polvere luminosa che, strato dopo strato, di generazione in generazione hanno colto la fortunata occasione della propria vita, donata in ogni minuto del loro esistere al futuro. Finalmente sposare la vita, dare un matrimoniale abbraccio alla vita, accarezzarla, baciarla, annusarla, sudarci con la vita, nel più spettacolare amplesso quotidiano, con l’Io sempre insieme a un Te.