Ho passato l’ultimo anno in giro per tre città: Bologna, quella che mi ha adottato, Roma il nuovo amore, infine Lecce e Squinzano, i luoghi della mia nascita.
Di Squinzano non ho mai conosciuto il nome di una via. Credo sia legge universale per tutti ignorare i nomi delle strade del paese dove si è cresciuti. Si arriva nei posti per punti di riferimento: la casa di, la scuola, la chiesa, il negozio. Di Lecce conosco pochissimi nomi, e meno ancora riferimenti.
Di Roma, a furia di andare e venire da un anno, comincio a riconoscere punti cruciali, vie principali, zone: a grandi linee so quando sono a nord, a sud e così via. Inoltre non sbaglio a prendere la metro (sì lo so, non è poi così difficile con due sole linee) e aspetto diligentemente numeri di autobus degni delle migliori giocate al lotto (gli autobus non arrivano mai e si sale anche dalle porte centrali, cosa per la quale a Bologna ti bacchettano all’istante).
Di Bologna conosco tutto: vie, stradine, quartieri, punti d’interesse. So trovare i posti che mi serve raggiungere, mi so muovere con i mezzi pubblici, sono in grado di indicare a chi guida la strada da fare (pur non avendo più la patente) evitando le preferenziali, posso calcolare i percorsi migliori in bicicletta e mi piazzo al centro dell’incrocio della stazione passando dal verde pedonale un attimo prima che scatti il semaforo per le auto, per risparmiare un secondo anticipando chi, dalla parte opposta, voglia svoltare alla sua sinistra (piazzarsi al centro dell’incrocio non è comportamento del tutto corretto, ma impedisce di morire per lo smog durante il tempo del rosso).
Ultimamente però ho avuto dei problemi. Mi sono ritrovata in autobus a chiedere il nome di piazza Malpighi confondendola con Cavour, San Francesco e Minghetti. Piazza dell’Unità no, è troppo vicina a casa mia e avrei dovuto dubitare sul mio stato di salute se ciò fosse accaduto.
Mi sono chiesta che cosa stesse accadendo: mi sono ambientata a Bologna talmente tanto da ignorare i nomi delle vie come i nativi di qualunque posto oppure sto rimuovendo piano piano i nomi della mia amata città per far posto a “cose ingombranti” tipo piazza Venezia, via del Corso o come la paesana piazza Vittoria meglio conosciuta come “la villa” o la borghese-leccese piazza Sant’Oronzo?
Quando partivo dal Salento diretta al nord avevo sempre la lacrimuccia, almeno il primo quarto d’ora, commossa dall’immagine di mia madre, mio padre e il cane di mio fratello, Dino, tutti e tre con la stessa faccia da pesce e l’occhio lucido (il cane si offende quando parto, di norma è così).
La settimana scorsa invece la lacrimuccia è stata la mia, il giorno prima di partire da Bologna, sapendo che almeno per un po’ sarà il mio luogo di “villeggiatura” e non di “residenza”.
Sempre l’ultimo giorno, passeggiando nel parco dell’Ippodromo (altra caratteristica è quella di disertare luoghi se pur vicini a casa fino al momento di doverli lasciare e quindi ritenerli all’improvviso degni di visita, preziose e irrinunciabili mete), una mia cara amica mi disse che lasciando Bologna la volta in cui aveva vissuto un anno fuori dall’Italia aveva pensato che avrebbe trovato dei grandi cambiamenti al ritorno e invece una volta rientrata le sembrò che nulla fosse accaduto nel frattempo.
Questo è quello che provavo io tutte le volte in cui tornavo al mio paese del sud. Arrivavo e mi sembrava che niente si fosse spostato neppure di un centimetro mentre io conoscevo, guardavo, imparavo, facevo, mi muovevo, in poche parole: vivevo.
p.s.: dicono che Bologna sia cambiata, ma forse siamo noi che siamo cambiati.