Ieri, a Washington, il ministro Tremonti ha dichiarato nella conferenza stampa, al termine del meeting del Fondo Monetario Internazionale, che l’Italia non è un paese in disoccupazione. La prova di ciò il ministro la deduce dai dati relativi all’occupazione degli immigrati: «In Italia ci sono 4 milioni di immigrati, tra cui moltissimi giovani che lavorano da mattina a sera e anche di notte. L’Italia è un Paese che offre lavoro a certe condizioni a certe persone, evidentemente non c’è domanda per questi tipi di lavoro da parte di altri». Sono gli italiani (specie se giovani), secondo il ministro, che non vogliono fare certi tipi di lavoro «a certe condizioni».
C’è del vero e c’è del falso nelle affermazioni del ministro.
E’ vero che gli immigrati (almeno fino al 2009, secondo i dati Istat) si trovano in una condizione di più alta occupazione rispetto ai lavoratori italiani. Ma questo dato nulla ci dice sul tipo di inserimento lavorativo degli immigrati in Italia. Tutte le ricerche, nazionali e locali, rilevano che si tratta di un inserimento caratterizzato da profonde discriminazioni e disparità: dall’accesso al lavoro all’attribuzione delle mansioni, dal salario alla mobilità, dall’inquadramento al trattamento pensionistico. E le disparità sono anche costruite dalle leggi. Il riferimento è a quelle leggi – tanto per citarne alcune – che danno all’imprenditore il potere di attribuzione di uno status di rilevanza pubblica (ovvero lo status di “regolare”) al lavoratore straniero; che sanciscono il divieto di accesso al pubblico impiego per i lavoratori stranieri; che violano apertamente la Convenzione O.I.L. n. 143/1975 sulla parità di trattamento (a causa del sistema di norme sugli ingressi e sul soggiorno); che introducono una differenziazione tra gli stessi lavoratori stranieri sulla base della nazionalità (a causa del sistema delle “quote”); che non consentono il riconoscimento dei titoli di studio e delle qualifiche professionali pregresse (aprendo così la strada al sistematico sotto-inquadramento dei lavoratori stranieri); ecc.
L’intera esperienza lavorativa degli immigrati in Italia è caratterizzata dalla discriminazione: 1) nelle aziende (solitamente quelle più grandi) che impiegano con contratti regolari gli immigrati, questi svolgono i lavori peggiori, meno retribuiti e qualificati, spesso sotto-inquadrati e senza concrete possibilità di avanzamento di carriera; 2) nelle aziende (solitamente le aziende più piccole) dove invece dilaga il sommerso, gli immigrati subiscono le peggiori pratiche di sfruttamento lavorativo.
A tale quadro occorre aggiungere la sistematica segregazione lavorativa delle donne immigrate. Molte di queste lavoratrici sono impiegate nel lavoro domestico, di cura e di servizio, nonostante il loro alto livello di istruzione. Nell’economia sommersa, in particolar modo, il ricorso a lavoratrici immigrate è un fenomeno particolarmente esteso, che è aumentato con il progressivo smantellamento dello stato sociale. Queste lavoratrici sono sottoposte, molto spesso, a durissime condizioni di vita e di lavoro. Subiscono, infatti, una forte segregazione lavorativa ed economica, che spesso si traduce anche in segregazione sociale ed esistenziale.
Ma i lavoratori immigrati sono anche i più precari tra tutti i lavoratori. Secondo le stime ufficiali (Istat, Dossier Caritas, ecc.), il loro livello di precarietà è ben più alto rispetto a quello dei lavoratori italiani (tra i quali non è affatto basso!). La condizione di precarietà per un lavoratore immigrato comporta, però, gravi conseguenze sotto il profilo giuridico ed esistenziale: avere dei periodi di disoccupazione, seppur brevi, significa anche perdere il titolo di soggiorno e, di conseguenza, diventare “clandestino”; inoltre, per un lavoratore straniero avere dei contratti di lavoro atipici significa dover rinnovare il titolo di soggiorno assai frequentemente (ad ogni scadenza di contratto), con tutto ciò che comporta in termini di spesa, di qualità della vita e, in generale, di stress esistenziale.
Ecco, quando si parla del lavoro e del livello occupazionale delle immigrate e degli immigrati in Italia, bisogna tenere conto di tutto questo.
Riprendendo, infine, la dichiarazione del ministro Tremonti, secondo cui i giovani italiani non vorrebbero più fare certi lavori, occorre dire ad alta voce che tale affermazione è falsa. E lo è perché si fonda sul falso presupposto che attribuisce, nel c.d. “libero mercato” del lavoro, un potere superiore al lavoratore (autoctono o straniero che sia) rispetto all’imprenditore. Se è vero che i lavoratori italiani si sono allontanati da una serie di occupazioni, è altrettanto vero che ciò è successo soltanto a causa del peggioramento delle condizioni lavorative e salariali ivi imposte dagli imprenditori e non perché si sia verificato uno strano fenomeno culturale di massa tra i lavoratori italiani, che li avrebbe trasformati di colpo in “scansafatiche”. E, di conseguenza, se gli immigrati svolgono in massa certi tipi di lavori non è perché, per indole nazionale o culturale, siano maggiormente predisposti a faticare in certi ambiti (ad esempio: i filippini nel settore domestico; i romeni e gli albanesi nell’edilizia, ecc.). Piuttosto, se c’è un dato da segnalare in tutta questa vicenda è quello dell’espulsione, diretta o indiretta, dei lavoratori italiani da alcuni settori occupazionali, attraverso il peggioramento delle condizioni lavorative e salariali. Queste ultime, così deteriorate, non potevano che essere accettate soltanto da coloro che si trovavano (e che tuttora si trovano) in peggiori condizioni di esistenza, cioè i lavoratori immigrati. Questi, infatti, specie se “clandestini”, consentono alle imprese (piccole e grandi) di realizzare una specie di “delocalizzazione in loco”, ovvero di riuscire ad avere quella manodopera a basso costo e senza diritti che, solitamente, si rincorre con le delocalizzazioni (in paesi terzi, dove non ci sono diritti, sindacati e alti salari), con il chiaro vantaggio di non dover spostare di un millimetro il processo produttivo.
E’ per questo, dunque, che non si può davvero dare credito allo slogan governativo: “immigrazione zero”. Piuttosto, ciò che da molti anni si cerca di ottenere con le politiche migratorie in Italia (ma anche in Europa) è un’immigrazione a zero diritti. Dietro proclami del tipo “mitragliamoli”, “foera d’i ball”, “svuotiamo la vasca”, “rispediamoli a casa”, si nasconde, quasi sempre, un grande bisogno di immigrati “clandestini”, cioè di manodopera a basso costo e senza diritti da impiegare nelle fabbriche del nord, così come nelle campagne del sud, e da utilizzare, nel contempo, come oggettiva minaccia contro i lavoratori autoctoni, ancora restii ad accettare le pessime condizioni di lavoro offerte (e anche per questo che lottare per i diritti degli immigrati ha sempre significato lottare per i diritti di tutti!). La vicenda assomiglia un po’ a quella di quei tipi della “cricca” che nella notte del terremoto dell’Aquila ridevano al telefono soddisfatti della tragedia, ma che l’indomani si sono presentati davanti alle telecamere col volto affranto dal dolore e pieno di orgoglio patriottico.