Reduce dalle rigeneranti Giornate della Laicità di Reggio Emilia (15-17 aprile), mi chiedo se sia più doveroso lodare la dedizione dei volontari che hanno organizzato in maniera impeccabile la miriade di eventi quotidiani disseminati sul territorio provinciale reggiano, testimonianza di un serbatoio d’impegno disinteressato (un tempo si diceva “di base”) che l’imperante politica-reality tende sistematicatamente a oscurare, o dare conto dell’altissima partecipazione di pubblico a incontri impegnativi che nulla concedevano agli ormai abituali effettacci rissosi, quale confortante conferma della crescente domanda di momenti riflessivi dopo l’overdose di tifo da stadio, sbracato e ululante, a cui da troppo tempo si è ridotta la video-discussione.Una riscoperta in controtendenza di quella civiltà democratica, declinata in impegno e partecipazione, che troppi modernisti un tanto al chilo, in spudorata malafede, si dilettano a stroncare come “anacronistica”.
Certo, le antiche e mai cancellate tradizioni civili del luogo, carico di ricordi preziosi (a partire dall’avere dato i natali – il 7 gennaio 1797 – al tricolore simbolo di quello Stato Nazionale di cui ora l’intera Italia sta celebrando così malamente i 150 anni), giocavano a favore della buona riuscita dell’iniziativa. Tuttavia c’è un “ma”, di cui intendo rendere conto con questa nota. Mi riferisco a un fatto scandaloso avvenuto proprio nel corso delle Giornate in questione: l’amministrazione di Scandiano, importante comune reggiano, ha negato l’autorizzazione che si tenesse in locali comunali l’annunciato incontro di Peppino Englaro con la popolazione. La motivazione sconcertante del divieto è stata che tale occasione “avrebbe disturbato lo svolgimento domenicale del rito delle Palme”. E si noti bene che il Comune è retto da una maggioranza Pd. Ciò detto, mi preme trarre dall’episodio qualche considerazione d’ordine generale.
In primo luogo l’ennesima conferma dell’avvenuta omologazione dell’intero ceto politico nel senso della sua berlusconizzazione. Dunque, il fatto che un’opposizione conservatrice di se stessa adotta – quasi a riflesso condizionato – criteri identici a quelli dell’attuale maggioranza nazionale in materia di bersagli cui indirizzare le proprie scelte comunicative. In altre parole, l’elettorato più refrattario a ogni sentore vagamente sovversivo dell’ordine vigente, diritti civili inclusi. Insomma, la gara per raccogliere i consensi si rivolge a un pezzo di elettorato comune, tra l’altro ritenuto sensibile al giudizio del clero più oscurantista. Ciò potrebbe essere effetto del tatticismo al ribasso derivato dalla presa d’atto che le uniche organizzazioni ancora radicate su territorio hanno come primario referente i vertici ecclesiastici.
Ma forse la ragione è ancora più preoccupante: i dirigenti dell’opposizione hanno smarrito la propria specificità, annegandola nell’indistinto della corporazione partitica. Per cui dichiarano il loro essere “altro” solo per ragioni di puro posizionamento elettoralistico. Ma intimamente “altro” non sono più, ormai da lunga pezza. Tanto che qualcuno denunciò già a suo tempo il fatto che “con questi dirigenti non vinceremo mai”.
Questa la causa di uno scoramento che si è diffuso a macchia d’olio in quanti rifiutano con orrore l’ipotesi di “morire berlusconiani”. E la contestuale ricerca di soluzioni salvifiche cadute dal cielo per uscire dallo stallo soffocante. Penso a quanti, amici e amiche, continuano a replicarmi su questo blog la loro convinzione che lo sblocco può avvenire solo per via giudiziaria. Con rammarico faccio loro osservare che le recenti vicende parlamentari, con relativo varo di leggi ad personam imposte a colpi di maggioranza, dimostrano l’impraticabilità di tale soluzione. Per non parlare della sostanziale impotenza degli appelli a presunte “collere divine” o – vedi Asor Rosa – all’intervento della forza pubblica. L’intangibilità del dominio berlusconiano origina dall’aver asservito il potere politico istituzionalizzato, con cui può disarmare quello giudiziario (e – caro Asor Rosa – disporre pure dei carabinieri). Sicché insisto che il punto cruciale resta la dimensione politica. In cui l’assenza di un’opposizione che faccia davvero il proprio dovere priva della necessaria sponda la parte (sì, maggioritaria) del Paese alla ricerca del famoso sblocco.
Le giornate reggiane ci confermano – però – che nel Paese regge una diffusa volontà d’impegno, seppure impastoiata nella rete della politica politicante, e cresce la domanda di profonde rotture che riaprano varchi verso una rinnovata convivenza civile, sebbene priva di referenti istituzionali. Per questo propongo ancora una volta il tema prioritario di come organizzare la soggettività sociale, che negli anni ha prodotto una serie importante di movimenti (le donne, i lavoratori Fiomm, il Popolo Viola, l’Onda, ecc.), in modo tale da agire congiuntamente – con il proprio peso anche numerico – come una leva su quella parte politica che dichiara di essere “l’opposizione”. Imponendole di essere tale. Magari dando vita a un coordinamento nazionale attorno a due/tre parole d’ordine condivise. La prima delle quali dovrebbe essere il ripristino del corretto rapporto di reciproca fertilizzazione tra movimenti e istituzioni (anche nel senso di rinnovamento del personale dedicato); senza il quale la democrazia rimane una parola vuota.