Continuano le proteste nei paesi del Mashreq, dalla Siria alla Giordania, dallo Yemen al regno della dinastia al Saud
Con l’attenzione internazionale concentrata su quanto avviene tra Tripoli e Bengasi, rischia di passare in secondo piano l’incendio che si estende nel Mashreq, il Levante arabo. Un incendio che si allarga ormai dalla Siria allo Yemen, passando per la Giordania e perfino alle regioni sciite dell’Arabia Saudita, il forziere petrolifero mondiale.
Siria – La situazione più esplosiva è forse quella siriana. Nella notte tra domenica e lunedì, le forze di sicurezza hanno aperto il fuoco sui manifestanti nella città di Homs, tradizionale roccaforte dei movimenti di ispirazione religiosa contrari al regime degli Assad. Secondo l’emittente panaraba Al Jazeera, i morti sono almeno 13. Una cifra destinata a salire se, come dicono alcuni testimoni locali, ci sono feriti, anche in condizioni gravi, che non vanno in ospedale per timore di essere arrestati.
Domenica è stato un giorno di manifestazioni in molte parti del paese. Le opposizioni hanno invitato i siriani a scendere in piazza per dare un nuovo senso all’anniversario dell’indipendenza, che commemora la fine dell’occupazione francese al termine della prima guerra mondiale. Il cartello delle opposizioni noto come Dichiarazione di Damasco ha accusato il governo per la morte degli attivisti di Homs e ha invitato i siriani a non fermare la mobilitazione. Il presidente Bashar Assad, da parte sua, ha annunciato sabato la fine delle leggi d’emergenza, in vigore da decenni, e la formazione di un nuovo governo. Mosse del tutto insufficienti, almeno per ora, a placare la rabbia di ampi strati della popolazione siriana. Si rischia, però, un sanguinoso stallo.
Assad può contare sul fatto che poche settimane fa il segretario di stato Usa Hillary Clinton ha detto che Washington non interverrà in Siria, nonostante il timore del contagio. Da Damasco a Beirut ci sono poche decine di chilometri e al momento nessuno sembra volere che la primavera araba arrivi anche nella fragilissima capitale libanese, terminale nervoso dei fermenti del mondo arabo. Le opposizioni, almeno finora, non sono riuscite a raggiungere una massa critica di cittadini sufficiente a mettere alle strette il regime e non hanno individuato una qualche figura che possa garantire una transizione pacifica. Saranno quindi le prossime settimane a decidere se Assad dovrà seguire la sorte del tunisino Ben Alì e dell’egiziano Hosni Mubarak o se invece riuscirà a mantenere ancora per un po’ il suo potere, anche a costo di dolorose concessioni.
Yemen – Chi sembra invece più vicino al capolinea del suo governo più che trentennale è il presidente yemenita Ali Abdullah Saleh. Nonostante lo schieramento di reparti dell’esercito ancora fedeli al presidente (in particolare la guardia repubblicana comandata da uno dei suoi figli), le proteste si sono estese dalla capitale Sana’a ad altre città del paese, come Taiz e Ibb, nonché il porto di Al Hudaydah.
Saleh continua a usare toni di disprezzo verso le opposizioni. Ma il cosiddetto Gruppo di Parigi (un cartello di dissidenti in esilio, fondato nel 2002) ha deciso di inviare una delegazione in Arabia Saudita per discutere con i paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Gcc) una possibile soluzione politica che preveda – condizione indispensabile secondo le opposizioni – la fine del regime di Saleh e probabilmente il suo esilio. Una precedente proposta del Gcc è stata respinta dai ribelli perché non prevedeva la rapida uscita di scena di Saleh. L’unico modo, secondo i ribelli, per evitare che il paese precipiti nella guerra civile, con una parte dell’esercito già pronto a schierarsi contro il presidente e una parte invece ancora impegnata a reprimere proteste che vanno avanti da quasi tre mesi e sono costate oltre 110 morti.
Arabia Saudita – Alle prese con problemi interni è anche l’Arabia Saudita. Il 15 aprile, per il secondo giorno di seguito, centinaia di persone hanno manifestato nella città petrolifera di Qatif, nell’est del paese, sulle sponde del Golfo Persico. I dimostranti hanno chiesto la fine degli arresti arbitrari dei dissidenti e il riconoscimento di pari diritti alla minoranza sciita, fortemente discriminata nei fatti dalla rigida ortodossia wahabita del regno saudita. Molti i cartelli di solidarietà con i manifestanti sciiti del Bahrein.
Quella degli sciiti sauditi non è ancora una vera sollevazione, ma è di certo un campanello dall’allarme per la dinastia al Saud. Secondo alcune fonti di intelligence, poi, sarebbe anche la prova del coinvolgimento di Teheran nelle proteste. Il governo iraniano, considerato un avversario strategico dei sauditi per la supremazia nel mondo musulmano, ha più volte dichiarato (ma sempre con funzionari di secondo livello) che nel caso di una dura repressione contro gli sciiti non potrebbe rimanere a guardare.
Giordania – Non c’entrano le tensioni tra sciiti e sunniti, invece, nelle proteste avvenute negli ultimi giorni in Giordania, in particolare nella città di Zarqa, luogo natale di Abu Musab al Zarqawi, a lungo luogotenente di al Qaida in Iraq, prima di essere ucciso nel giugno del 2006. Zarqa è un città industriale con una forte presenza di gruppi salafiti e integralisti, da cui proveniva anche Abu Musab. Gli scontri con le forze di sicurezza governative sono andati avanti per tutta la giornata del 15 aprile, dopo la preghiera del venerdì, con strascichi di arresti e perquisizioni sommarie nei giorni successivi.
La monarchia giordana sembra stretta tra due fuochi: ad Amman continuano le manifestazioni per chiedere riforme democratiche (ancora venerdì scorso c’erano almeno 2mila persone in piazza), mentre da Zarqa si alza la sfida dei movimenti integralisti, che chiedono l’applicazione della Sharia e la fine dell’alleanza con gli Stati Uniti. La scelta per re Abdullah, istruito in Gran Bretagna e negli Usa, sembra facile e quasi obbligata: mantenere finalmente le promesse di rinnovamento democratico del regno, per avere l’appoggio politico necessario a spegnere i focolai della protesta integralista.
di Enzo Mangini