Dopo le rivolte nel mondo arabo, arriva il mea culpa dalla Francia. Che tenta di lanciare una nuova politica sulla sponda sud del Mediterraneo. “Troppo a lungo abbiamo pensato che i regimi autoritari fossero il solo bastione contro l’estremismo nel mondo arabo – ha ammesso il ministro degli Esteri, Alain Juppè, in un incontro pubblico a Parigi -. Troppo a lungo abbiamo brandito il pretesto della minaccia islamista per giustificare un certo compiacimento nei confronti di governi che violavano la libertà e ostacolavano lo sviluppo dei propri paesi”.
Non a caso, Juppé ha scelto di porgere il suo ramo d’ulivo durante un incontro sulla Primavera araba organizzato presso l’Istituto del mondo arabo di Jean Nouvel, vivace centro culturale e simbolo parigino più evidente della complessità dell’universo culturale e politico arabo. La nuova ricetta della Francia – alle prese con l’intervento militare in Libia e in evidente allerta per la situazione in Siria – ha come pilastro l’apertura del dialogo “con gli interlocutori della società civile” dei paesi del Mediterraneo e con quelle “correnti islamiche” che rifiutano il ricorso alla violenza. Fra cui spiccherebbero anche i Fratelli musulmani, come sembra indicare la visita del ministro al Cairo lo scorso marzo.
Non solo. Il Quai d’Orsay si è proposto come apripista europeo nel rilancio dell’Unione per il Mediterraneo con un dipartimento dedicato ai giovani. Ed è pronto a destinare il 20 per cento dei fondi per la cooperazione allo sviluppo proprio a quei paesi arabi sensibili alle riforme democratiche, penalizzando invece quanti “non rispettano i diritti dell’uomo”. Nel suo discorso, però, il ministro degli Esteri ha lanciato anche un messaggio di ben altro tono, ritenuto dalla stampa francese un chiaro avvertimento per il presidente siriano Bachar El-Assad quando sottolinea l’intenzione di agire “con fermezza e con tutti i mezzi a nostra disposizione” davanti a provate violazioni dei diritti umani.
La volontà del governo francese di chiudere il prima possibile con un passato scomodo resta comunque un’impresa niente affatto semplice, tanto più che le conseguenze della Primavera araba sono un grattacapo di cui il governo avrebbe fatto volentieri a meno in tempi di campagna elettorale e con sondaggi decisamente poco favorevoli al presidente Nicolas Sarkozy.
In particolare, il terreno più accidentato sembra essere quello tunisino. Se molti a Tunisi non hanno ancora digerito la freddezza con cui Parigi aveva accolto la rivolta popolare, le critiche ora sembrano tutte concentrate intorno all’ambasciatore Boris Boillon, dopo che due mesi fa si era rifiutato in maniera piccata di rispondere ai giornalisti che chiedevano spiegazioni sulla posizione francese davanti alla repressione. La risposta tunisina non ha tardato ad arrivare: il 20 febbraio oltre 3mila persone hanno protestato davanti alla sede diplomatica chiedendo la sua sostituzione, sostenuti da 19mila contatti su Facebook con lo slogan “Boris vattene”. Un problema non da poco, tanto che per settimane si è parlato di un cambio alla guida dell’ambasciata da affidare al diplomatico Yves Marek, il cui padre era stato arrestato da Ben Alì negli anni’80. Un’ipotesi accolta dall’opinione pubblica tunisina con entusiasmo e oltre 20mila post di “benvenuto” su Facebook.
Ma il cambio di rotta non è mai arrivato: secondo la stampa francese le cause sono da ricercare nel veto del consigliere diplomatico dell’Eliseo Jean-David Levitte piuttosto vicino al regime di Ben Alì, o forse dipendono dalla difficoltà dello stesso Juppé di smarcarsi dalle pressioni di una diplomazia fino a ieri diffidente verso le rivolte arabe.
Il terreno resta minato, e il viaggio di domani del ministro degli Esteri francese a Tunisi, il primo dal cambio di governo e che arriva dopo ben due rinvii, sembra essere un banco di prova decisivo per i futuri rapporti tra Tunisi e Parigi.
di Tiziana Guerrisi