Il governo ellenico smentisce le voci di default tecnico sui titoli di Stato ma il mercato sembra dare ragione alle indiscrezioni in senso contrario. Il rischio è che il Paese collassi, trascinando nel baratro il resto del Continente. I Piani di salvataggio non funzionano. E dalla Finlandia spira un nuovo vento di ripensamento
“La ristrutturazione del debito non è necessaria e né auspicabile” ha spiegato ieri il governatore della banca centrale di Atene George Provopoulos cercando in tutti i modi di mettere a tacere le sempre più inquietanti voci di default tecnico. Ieri, citando una fonte anonima del Fondo monetario internazionale, il giornale locale Eleftherotypia aveva affermato il contrario. Il ministro delle finanze George Papacostantinou, aveva scritto, avrebbe infatti già avanzato una richiesta di nulla osta per il taglio dei rendimenti sulle obbligazioni sovrane. In pratica l’annullamento delle condizioni contrattuali sui titoli di fronte all’impossibilità di onorare l’impegno restituendo il debito. In parole povere la bancarotta nazionale. Provopoulos, come detto, ha smentito tutto. Ma è possibile credergli senza riserve? Secondo gli investitori, evidentemente no.
I tassi di interesse sui bond decennali greci hanno sfiorato oggi quota 14 per cento evidenziando l’ennesimo record nello spread con il bund tedesco. Quelli a due anni viaggiano ormai sul 17 per cento sottolineando così un maggiore rischio di breve periodo. Il costo di assicurazione dei crediti misurato sui Cds (credit default swaps, i derivati che garantiscono un rimborso in caso di fallimento) vale ormai 1.220 punti base, come a dire che per garantire un credito da 10 milioni di euro con Atene occorre sborsarne 1,22. Qualche giorno fa, gli analisti di Markit, insieme a Cma il principale monitor mondiale sui derivati scambiati fuori dalle borse, attribuiva alla Grecia 65 probabilità su cento di fallire entro i prossimi cinque anni. Un dato che non ha eguali al mondo. Provopoulos ammette senza riserve che nel corso di quest’anno il Pil nazionale si contrarrà ancora del 3per cento peggiorando quindi il rapporto con quel debito da 325 miliardi su cui pesano gli interessi (4,2 per cento annuo) pagati sul finanziamento di emergenza Ue. Si stima che entro il 2013 il debito ellenico possa arrivare ad equivalere al 160 per cento del prodotto nazionale. Oltre due volte e mezzo rispetto al limite massimo del Patto di stabilità.
Il deterioramento dei dati misurato oggi lancia un segnale chiarissimo: la Grecia non ce la può fare nemmeno con l’aiuto del Continente. Ne sono convinti gli analisti, ma anche i Paesi “virtuosi”, con i conti a posto e la legittima voglia di non scaricare sui propri contribuenti il costo di un salvataggio rivelatosi ad oggi perfettamente inutile. Il trionfo elettorale degli euroscettici alle elezioni finlandesi di domenica apre ora un’autentica grana in sede Ue. Helsinki potrebbe boicottare il piano salva Portogallo creando ulteriore tensione sui mercati. Il punto, però, è che nonostante la logica di fondo, il fallimento tecnico di Atene (e poi forse di Dublino, che già è pronta a imporlo sul debito delle banche private, e Lisbona) aprirebbe la strada a conseguenze molto gravi. Vediamo nel dettaglio.
Se la Grecia si dichiarasse insolvente ne farebbero le spese i titolari delle sue obbligazioni, ovvero i Paesi più esposti (Francia e Germania), la Banca centrale europea, e le banche private greche che, guarda caso, sono piene zeppe di titoli di Stato. Il rischio è che il sistema del credito greco crolli generando tensioni sociali inimmaginabili e riproducendo per le strade di Atene le scene già viste un decennio fa a Buenos Aires. Un ulteriore contraccolpo per tedeschi e francesi esposti non solo sui bond sovrani ma anche sui titoli emessi dagli istituti privati ellenici. Di fronte al tracollo, la percezione del rischio contagio peggiorerebbe la situazione delle altre periferie europee sollecitando gli speculatori. Nel mirino degli hedge finirebbe soprattutto la moneta unica in un vortice di deprezzamento forse mai visto.
Oggi l’euro ha toccato i minimi degli ultimi dieci giorni con il dollaro e delle ultime due settimane con lo yen. Ma in caso di forte speculazione la discesa potrebbe accelerarsi. Come se non bastasse la spinta inflazionistica dovrebbe indurre la Bce a proseguire lungo la linea tracciata due settimane fa alzando di mezzo punto il costo del denaro entro la fine del 2011, con ovvie ricadute negative sui prestiti concessi nei mercati nazionali sul fronte dei mutui e non solo. Per i Paesi a forte indebitamento privato sarebbe un problema notevole. E siccome a patire le peggiori conseguenze sarebbe in primo luogo la Spagna, ovvero quella tessera del domino di cui nessuno potrebbe sopportare la caduta, ecco spiegato per quale motivo, già oggi, l’inquietudine in sede europea tocchi preventivamente i livelli di guardia.
E’ prematuro parlare di apocalisse, ma i timori di un forte peggioramento sono più che giustificati. E per l’Europa, chiamata a sopravvivere alla tempesta, si apre ora il difficile capitolo del ripensamento della propria politica anti crisi. Un atto dovuto nella speranza che la tragedia greca non si trasformi in seguito in una tormentata tragedia continentale.