“Ahlan wa sahlan fi filashtin”: benvenuti in Palestina. Dimenticatevi un mondo normale, fatto di strade e città. Qui ci sono villaggi in cui si può accedere solo da stradine che poi diventano tunnel sotto autostrade che possono percorrere solo alcuni, altri no. Qui ci sono muri e filo spinato, che garantiscono la sicurezza israeliana, ma tagliano territori e non permettono a gente comune, contadini e lavoratori, di attraversare quella che un tempo era la loro terra. Villaggi le cui case sono cubi di cemento, mentre all’orizzonte c’è sempre un insediamento di coloni, circondato da filo spinato, da cui svettano i “tetti rossi” delle case israeliane. Accesso possibile solo superando invalicabili check point.
Per le autorità di Israele una delle pricipali “palestre” del terrorismo palestinese è Nablus, nei Territori occupati, assediata e cannoneggiata durante la seconda Intifada. Abbiamo attraversato le strade della città vecchia, un budello affascinante e fatiscente al tempo stesso. Botteghe e piccoli negozi. Al Taqtouq vende dvd e cd: modernità che si confonde con quello che alcuni potrebbero considerare ancora Medioevo. Al Taqtouq ha due figli, uno si chiama Alì ed è al suo fianco. L’altro, Hamzeh, adesso ha 26 anni. Di cui gli ultimi sei trascorsi in carcere. Faceva parte della Resistenza armata di Nablus. E’ stato arrestato e condannato a 250 anni dietro le sbarre. Suo padre si commuove: “Tutto il mondo sa di Gilad Shalit (il soldato israeliano catturato nel 2006 da Hamas a Gaza, ndr), ma dei più di 5000 mila prigionieri palestinesi cosa sapete? Di mio figlio Hamzeh cosa sapete? Come si fa a condannare una persona a 250 anni di galera?! Io non lo vedrò mai più, devo vivere con questo dolore”. Si spengono le luci della sera su Nablus.
Al Taqtouq nel suo piccolo negozio di dischi a Nablus, nei Territori Occupati Palestinesi.
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