Gli adulti dormivano come sempre, intorno alle due del pomeriggio, in quella calda estate.
Le cicale organizzavano rumorosamente il silenzio e i sogni altrui mentre le formiche evitavano la calura lavorando in quei bui cunicoli del sottosuolo.
Tutto andava come da copione.
Il vecchio aveva pranzato in solitudine, alla sua ora, sul mezzogiorno esatto. Non voleva e non poteva aspettare i tempi degli altri. Aveva chiesto e ottenuto, oramai da molti anni, di farsi servire sotto il pergolino di uva-luna fin dai primi giorni di primavera quando, buttando lo sguardo fra le zolle della vigna, si divertiva a contare i primi anemoni e a farsi stordire dai lillà. Da quella sua postazione seguiva i mandorli, i giaggioli e i ciliegi. Il grande vecchio albicocco, con quelle sua albicocchine piccole e intense, gareggiava coi ciliegi a fondo campo e con le claudie che penzolavano numerose dal susino come gocce dorate, rimarcate dalla resina che imperlava la loro superficie.
Gli era stato servito da sua nuora un pomodoro maturo e caldo di sole, che l’acqua della lavatura non aveva raffrescato. Il suo profumo d’orto si era intrecciato con il profumo di un’acciuga dissalata da un paziente coltellino che era poi stata sliscata. Entrambi erano stati un pranzo perfetto, rimarcato da quel tocchetto di pane fresco che aveva poi ammorbidito nell’inzupparlo dentro l’acquerugiola pomodorosa e nell’acidula untuosità. L’acciuga gli aveva scatenato fino all’ultimo una potente salivazione, una vera e propria abbondanza di “acquolina in bocca”.
Tutto andava come doveva andare.
Gli altri, di un’età che stava abbondantemente e in egual misura fra la sua e quella del bambino, lontani dalla capacità di meraviglia dei ragazzi e dalla capacità dei vecchi di rimpiangerla, erano arrivati al pranzo e avevano mangiato alla loro ora, nella penombra della grande cucina.
Il tavolo, nel mezzo della stanza, arieggiata da sapienti riscontri di persiane socchiuse e porte semi-aperte, si trasformò in una piazza piena di parole sulla mattinata di lavoro appena trascorsa. Il vecchio aveva capito che si stavano saziando di quelle parole, di fresca panzanella e di pomodori ripieni di riso, cotti nel forno a legna la sera prima e poi fatti riscaldare. La nuora era andata da lui e sorridendogli gli aveva chiesto: “Babbo, ne volete uno per stasera? Ve lo servo, insieme a due spicchi di patate arrostite nell’unto, al riparo da quei golosi”. Il vecchio disse di sì.
Tutti, a fine pranzo, si erano alzati per riassettare prima il tavolo e poi la stanza. Le donne avevano messo ad asciugare i piatti sull’acquaio. Finito il riordino, ognuno era andato nella sua stanza a riposare, la nuora e suo figlio lo avevano salutato e, chiudendo la porta della loro camera, gli avevano chiesto di dar lui uno sguardo al bambino che già penzolava dall’albero con la bocca stracolma e la bazza sporca di fichi.
Si spogliarono e si distesero sopra al lenzuolo di cotone coprendosi le “belle vergogne” con un piccolo asciugamano.
Il vecchio guardò il nipote che si era deciso a scendere, tenendo nel palmo aperto tre fichi seccati dal sole. Il bambino gli si avvicinò posandoglieli sullo sgabello accanto alla sua sdraio, dove si era seduto dopo il pranzo. “Nonno, li volete?”. L’anziano uomo rispose mettendosene subito uno in bocca. La pelle del fico era seccata dal sole e il frutto, nella sua asciuttezza, si era reso potente e fu capace, rompendosi dopo il primo morso, di esplodere con i suoi mille sapori. La vita, da un po’ di tempo, gli regalava la bellezza del suo tempo. Sarebbe andato a pescare, la mattina dopo, all’alba, col suo piccolo barchino. E avrebbe chiesto al nipote di accompagnarlo per prendere non meno di 10 piccole ricciole.
L’8 agosto del 2046 il vecchio se ne andò, sorridendo e felice, con l’amore di tutta una vita mai perduto, nemmeno in tarda età.