Sequestrato al largo del Corno d'Africa il cargo italiano Rosalia D'Amato. Mentre la missione Ue Atlanta e quella Onu Ocean Shield cercano di rendere sicuro un tratto dell'Oceano Indiano cruciale per i traffici commerciali, il quadro giuridico è inadeguato: le leggi contro la pirateria risalgono a più di 200 anni fa e la convenzione delle Nazioni Unite non è stata recepita da molti paesi
A bordo del cargo italiano, 21 persone, di cui 6 italiani; altrettanti sulla nave coreana. Secondo quanto riferito dall’Unità di crisi della Farnesina che sta monitorando la situazione, l’equipaggio della Rosalia D’Amato, 4.500 tonnellate, sarebbe in buone condizioni e l’assalto dei pirati sarebbe avvenuto senza feriti e senza l’uso di armi da fuoco. Le notizie arrivano dal comandante della nave che ha avuto la possibilità di contattare l’armatore. La motonave italiana sarebbe diretta verso una località imprecisata della costa somala. E’ probabile che lo stesso gruppo di pirati ha colpito sia la nave coreana che quella italiana.
In zona, oltre alla nave da guerra sudcoreana, si sta riposizionando la fregata italiana Espero, una delle unità della forza navale internazionale della missione Atlanta, dal 2008 in azione contro le imbarcazioni dei pirati che dalla Somalia minacciano uno dei nodi essenziali delle rotte marittime internazionali. Secondo l’International Maritime Bureau, nei primi mesi del 2011 gli attacchi pirateschi sui mari del mondo hanno raggiunto il record: 142 assalti segnalati, la gran parte nell’area dell’Oceano indiano tra il Corno d’Africa, la penisola arabica e le coste dell’Asia meridionale. Un raggio d’azione molto ampio, impossibile da coprire solo con le agili barche a motore che i pirati usano per arrembare le vittime designate. Da tempo, secondo gli esperti della Maritime Scurity Review, la tattica è cambiata: alcune delle navi sequestrate vengono attrezzate per essere usate come ‘navi madre’. Le lance dei pirati partono direttamente da queste navi e non dalla costa.
Proprio una nave madre è stata il bersaglio di un’azione della flotta internazionale, avvenuta mercoledì nelle acque davanti alla città somala di Hobyo, nel sud del paese. Testimoni locali hanno riferito all’agenzia France Presse che una nave non identificata è stata attaccata da elicotteri militari partiti dalle navi della forza navale europea della missione Atlanta. Nell’attacco, almeno quattro persone sono state uccise e altre sei sono rimaste ferite. Non è però chiaro se la nave colpita fosse effettivamente un base galleggiante dei pirati o se invece servisse soltanto per portare rifornimenti verso la costa somala.
La lotta alla pirateria, in Somalia specialmente, si sta rivelando un rompicapo giuridico e militare internazionale. Le missioni militari internazionali in zona sono due: Atlanta, guidata dall’Ue, e Ocean Shield, sotto comando Nato. Inoltre ci sono altre navi da guerra, per esempio russe e cinesi, che conducono le proprie operazioni di pattugliamento e scorta fuori dalle missioni internazionali. Nonostante ciò, dai dati della Maritime Security Review, risulta che siano almeno 36 le navi (e i relativi equipaggi) tenuti in ostaggio dai pirati somali.
Trentaquattro pirati sono stati arrestati all’inizio di aprile al termine di un attacco notturno condotto dalle navi della missione Nato Ocean Shield. Le truppe speciali hanno assalito un “covo” di pirati sulla costa somala, dove erano stati identificati dei depositi di munizioni e di materiali scaricati alcune ore prima da una nave madre. Nel blitz, che non sembra abbia causato vittime, sono stati anche liberati 34 ostaggi.
La Nato, nel suo comunicato non dice dove i pirati arrestati siano stati portati. Ed è questo il punto più delicato di tutta l’architettura anti pirateria, perché il quadro giuridico è complicatissimo. Le leggi internazionali contro la pirateria risalgono alla fine del XIX secolo e l’unico trattato corrente, la Convenzione Onu sulla Legge del mare, che pure definisce la pirateria come crimine internazionale, non è stata recepita dalle legislazioni nazionali di molti paesi. Perciò non è chiaro se i pirati fermati debbano essere processati dal paese a cui appartiene la nave che li ha catturati o se invece sia meglio processarli in Somalia, dove non esiste un governo dal 1991, o addirittura in un paese terzo.
L’Olanda ha adottato la prima interpretazione e poche settimane fa un tribunale olandese ha condannato 5 somali riconosciuti colpevoli del sequestro di un cargo olandese nel golfo di Aden nell’aprile del 2009. Presunti pirati somali sono in carcere anche negli Stati Uniti, in Francia, nello Yemen e in Germania, ma il grosso dei pirati “arrestati” dalle forze navali internazionali è al momento in Kenya. Si tratta di circa 130 persone sospese in un limbo giuridico. Nel 2009 infatti il Kenya aveva accettato dei trattati bilaterali con una serie di paesi (Cina, Usa, Canada, Regno unito e Danimarca, oltre all’Unione Europea) per celebrare davanti ai propri tribunali i processi a carico dei presunti pirati. Nell’aprile del 2010, però, un giudice kenyano ha stabilito che le leggi nazionali non sono applicabili e dunque che i tribunali del Kenya non sono competenti a decidere sui casi di pirateria avvenuti in acque internazionali o in acque territoriali di paesi terzi.
Così, si deve ricominciare e della questione è stata investita direttamente l’Organizzazione delle Nazioni Unite. A gennaio di quest’anno, Jack Lang, inviato speciale del segretario dell’Onu Ban Ki-Moon ha consegnato il proprio rapporto: il consiglio è di creare dei tribunali ad hoc in alcune regioni della Somalia, tra cui il semi-autonomo stato del Puntland, che però non è riconosciuto a livello internazionale. L’incertezza normativa favorisce i pirati e gli assicuratori marittimi: i premi delle assicurazioni per le navi che battono le rotte a rischio nell’Oceano Indiano continuano sistematicamente a salire. Tanto che, alla fine, per qualcuno, pagare il riscatto ai pirati è il male minore.
di Enzo Mangini