In fondo era stato tutto chiaro fin dall’inizio. Qualche giorno fa, nella surreale pausa dei lavori sul processo breve, Giulio Tremonti aveva aperto la presentazione del Def con parole inequivocabili. “L’unico messaggio responsabile e nell’interesse del Paese – aveva dichiarato il ministro – è che non esistono i presupposti per una crescita duratura ed equa senza stabilità dei conti pubblici”. Affermazioni chiare e semplici, capaci di individuare una volta per tutte l’unica strada percorribile dal governo a fronte di un contesto finanziario che non lascia alternative. Il futuro è scritto e la parola dominante è talmente “oscena” che nessuno, nell’esecutivo, ha il coraggio di pronunciarla se non di straforo e rigorosamente sottovoce: tagli. A tracciare il percorso ci ha pensato ieri la Corte dei Conti prefigurando, nel corso dell’audizione al Senato, la misura del piano di rientro. Un piano draconiano, ovviamente.
“Il miglioramento del livello del disavanzo tendenziale (…) – spiega la Corte – discenderebbe, infatti, dal mantenimento della pressione fiscale sul livello elevato del 2010 (42,6 per cento), da una ulteriore forte caduta degli investimenti pubblici rispetto al livello minimo del 2010 e dal blocco temporaneo delle spese di personale delle amministrazioni pubbliche. Nel biennio successivo (2013-2014), l’obiettivo programmatico di sostanziale pareggio del bilancio richiederà una correzione strutturale dei conti pubblici di oltre due punti di prodotto interno lordo (poco meno di 40 miliardi di euro)”. Eccola dunque la cifra tanto temuta. Più del doppio rispetto alla quota fissata in precedenza da Tremonti (15 miliardi) per una stima che si pone in linea con quanto ipotizzato da Bankitalia (35 miliardi). Già nei giorni scorsi il sempre più probabile futuro presidente Bce Mario Draghi aveva chiarito la realtà dei fatti: “All’Italia serve una crescita attorno al 2 per cento e una riduzione del deficit dello 0,5 per cento” aveva dichiarato. E siccome un tale ritmo di crescita resta per il momento impensabile, ecco che la differenza dovrà essere compensata da una riduzione della spesa.
La linea dura espressa da Draghi non passa certo inosservata. Da un lato il governatore ha tutto l’interesse a mostrare l’intransigenza necessaria per convincere gli scettici di Berlino e rimuovere gli ostacoli nella strada che dovrebbe condurlo al vertice dell’istituto centrale europeo. Dall’altro, le sue affermazioni sembrano rimarcare quella sentenza che i mercati hanno già emesso. Nei mesi scorsi, l’allarme sui conti italiani aveva scatenato una prima speculazione sui titoli pubblici: lo spread sul bund tedesco aveva raggiunto livelli da record, il valore dei credit default swaps sulle obbligazioni a cinque anni aveva toccato quote pericolose (238 punti base) attribuendo implicitamente all’Italia un rischio bancarotta quinquennale del 19,3%. Poi, improvvisamente, la quiete. I tassi sulle obbligazioni hanno ceduto in modo considerevole, il rischio sovrano calcolato sui derivati è crollato (12,5%). Un segnale evidente di come gli investitori abbiano deciso di dare fiducia all’Italia. E siccome gli operatori non ragionano certo in nome della misericordia, la spiegazione di una simile inversione di rotta (visto che le prospettive di crescita sono addirittura peggiorate per ammissione dello stesso governo) resta una sola: l’Italia, hanno capito in sede Ue e non solo, si è definitivamente arresa alla necessità di sistemare i suoi conti a colpi di prevedibili stangate.
Una strategia che passa attraverso tagli e imposizioni fiscali. I primi preoccupano i titolari dei dicasteri (a cominciare, smentite a parte, da Mariastella Gelmini che alla vigilia della presentazione del Def aveva, si dice, espresso un forte risentimento circa le ipotesi di sforbiciate al bilancio), il capitolo tasse, nonostante la retorica pro impresa dello stesso Tremonti, porta ancora malcontento in quel di Confindustria. Secondo il direttore dell’associazione degli industriali Giampaolo Galli, le manovre di azzeramento deficit previste per il 2013-2014 costituirebbero un impegno “di gran lunga superiore a quello compiuto negli anni novanta per rispettare i parametri di Maastricht” e aderire alla moneta unica.
E proprio Maastricht con la sua ideale continuazione rappresenta per il futuro il vero incubo sulla strada del risanamento. Se è vero che nei piani del governo ci si potrà concentrare sulla riduzione del debito quando il deficit non costituirà più un problema, è lecito aspettarsi a partire dal 2015 l’avvio di un percorso di ripianamento di proporzioni epiche. Il piano di stabilità prevede infatti l’obbligo per i Paesi caratterizzati da un rapporto debito/Pil superiore al 60% di tagliare l’eccesso del proprio debito di almeno un ventesimo all’anno. Alla fine di settembre, quando il dato italiano si attestava al 116% (oggi si sfiora il 120%) si parlò di circa 130 miliardi in tre anni. Una maxi manovra che potrebbe essere attenuata solo da una forte crescita economica. Ovvero da ciò che all’Italia manca da almeno vent’anni a fronte di problemi endemici mai risolti. Ma questa, ovviamente, è tutta un’altra storia.