SALERNO – Questa è la storia, riassunta e incompleta, di un imprenditore che tramite la politica aveva accresciuto la sua influenza, era diventato presidente della Provincia di Salerno in quota Margherita-Pd, ma ha visto lo stesso andare in difficoltà le sue aziende personali e familiari nel ramo della grande distribuzione organizzata e dei supermarket. E subito dopo aver perso le elezioni ha fatto bancarotta ed è stato arrestato cinque volte in pochi mesi per un crac di dimensioni colossali, che sfiora i 200 milioni di euro. L’imprenditore in questione, Angelo Villani, 55 anni, è stato arrestato cinque volte cinque. Arresti decisi nell’ambito di altrettanti procedimenti penali nati dai fallimenti delle diverse società del suo gruppo. Il numero potrebbe salire a sei, se la Cassazione confermerà una ordinanza del Riesame che ha ribaltato un diniego del Gip di Salerno relativo a un ulteriore fascicolo. Ma cinque o sei, ha poca importanza. Ormai le inchieste del pm Vincenzo Senatore sono concluse e la parola passa ai giudici. Villani è ai domiciliari ed in questi giorni prepasquali ha affrontato una sfilza di udienze preliminari in cui è imputato di bancarotta fraudolenta. C’è un’istanza per accorpare tutto in un unico processo: si deciderà tra pochi giorni.
Fino a un anno fa Villani era il signore della grande distribuzione alimentare nel salernitano. Tramite la capogruppo Alvi spa e la costola SuperAlvi spa nel 2008 serviva e controllava circa 110 punti vendita tra Campania, Lazio, Basilicata, Calabria e Puglia attraverso due centri distributivi, a Fisciano e a Ferrandina. Il bilancio consolidato del gruppo amministrato dal politico-imprenditore registrava 282 milioni di euro di ricavi netti di vendita, più quelli della sola Alvi che consistevano in circa 245 milioni. Poi la disgrazia, politica e finanziaria: nella primavera 2009 Villani non viene riconfermato, sconfitto dal Pdl Edmondo Cirielli. E sette mesi dopo vede fallire le sue aziende a una a una: il 16 dicembre fallisce l’Alvi, il 10 marzo successivo la Superalvi spa, il 29 marzo la Apolucani srl, il 15 aprile altre quattro società satellite del gruppo (Supermercati Calabresi srl, Sannio Discount srl, Iper Alvi srl, Casertana Discount srl), il 28 aprile l’ultima, la Ag Company srl. La tempistica non sarebbe una coincidenza. Lo scrive il Gip Gaetano Sgroia a pagina 79 dell’ultima ordinanza di arresto, spiccata ad aprile nell’ambito del procedimento sulla bancarotta della società capogruppo, una sorta di riassunto di tutte le inchieste: “La quasi contestualità dei due eventi (sconfitta elettorale e fallimento dell’Alvi spa) impone ulteriori verifiche atteso che il ruolo istituzionale di Villani potrebbe aver contribuito a sorreggere il coacervo di società della famiglia Villani, contribuendo a ritardare l’emersione della grave crisi che si è presentata repentinamente in tutta la sua grave drammaticità sia dal punto di vista economico che sociale”. Il Gip usa il condizionale, ma per il sentire comune è una certezza. Fin quando la politica lo ha ‘coperto’, e questo è riportato anche in alcuni passaggi degli atti giudiziari, Villani ha goduto di fidi e linee di credito che gli hanno consentito di prolungare la vita (e l’agonia) delle sue aziende. Appena ha perso lo scranno di presidente della Provincia, le banche hanno chiuso i rubinetti. A cominciare dalla Banca della Campania, che nell’agosto 2009 non ha pagato alcuni assegni infragruppo e ha fatto scattare l’allarme rosso tra il ceto bancario locale. Fino al febbraio precedente, Villani era consigliere d’amministrazione di questa banca.
La vicenda salernitana, dimostra, dunque come politica e finanza non dovrebbero mai mescolarsi. Visto che il crac Villani è ricaduto sulla collettività. Solo per l’Alvi, hanno chiesto di essere ammessi al fallimento 1863 creditori (per ora 715 le domande ammesse), per una debitoria di quasi 145 milioni di euro. E sono finiti in mezzo a una strada 58 dipendenti. Ma sono numeri assai parziali, perché non tengono conto del personale, delle aziende creditrici e dei fornitori delle altre sette società satellite anch’esse fallite, e della scia di morte e distruzione economica che il disastro del gruppo Alvi ha prodotto: molti fornitori avevano in Alvi il loro unico cliente, e nell’attesa vana dei pagamenti sono falliti anch’essi.
La relazione del curatore fallimentare punta l’indice contro la “negativissima gestione della rotazione del magazzino delle merci” che ha fatto quasi raddoppiare il valore delle giacenze in due anni, da 60 a 110 milioni di euro. Gestione correlata ad un allungamento della durata delle scorte, salita a due mesi e mezzo mentre la media del settore è inferiore a un mese. L’Alvi ha provato a scaricare i costi sui fornitori, imponendo pagamenti a oltre sei mesi, mentre la media è inferiore ai tre mesi. Quando le banche tagliano i fidi, è la fine. La merce scompare dagli scaffali dell’ingrosso, le società clienti lamentano la mancanza di tutto, e scappano pure i clienti al dettaglio. Ma ovviamente c’è dell’altro dietro un crac di queste dimensioni. E provano a spiegarlo le centinaia di faldoni di carte che occupano un’intera stanza di un ufficio del Nucleo Tributario della Guardia di Finanza di Salerno. I finanzieri, coordinati dal tenente colonnello Antonio Mancazzo, hanno steso una serie di informative in cui hanno segnalato distrazioni di beni, la scomparsa di intere settimane di incassi liquidi dei punti vendita, lo svuotamento lento ma costante di alcuni asset societari con lo scopo – secondo l’accusa – di sottrarre risorse a un fallimento imminente, lasciando i creditori in mutande. Le fiamme gialle scovano il conto corrente numero 2302 della Banca della Campania dove Villani ha incassato 402mila euro “in assenza di qualsivoglia giustificazione”, e altri 60.000 euro sul conto 6310002.63 della filiale di Salerno del Monte dei Paschi di Siena. Ed ancora, altri 20.000 euro sul conto corrente di un familiare. I parenti di Villani contribuiscono al dissesto. Nella cassetta di sicurezza di un cognato a Mercato San Severino vengono rinvenuti 141.085 euro in contanti, provenienti da prelievi ingiustificati dai conti Alvi e Superalvi, e 22 orologi extralusso (tra cui 4 Cartier in oro e uno in acciaio, 2 Vacheron Costantin, 2 Rolex). La sensazione è che si tratti solo di alcune fette di una pagnotta la cui lievitazione è tutta da scoprire. Messa in forno da Villani e dai parenti più stretti: fratelli, sorelle, cognati, tutti con un ruolo preciso in una o più delle società del gruppo, tutti raggiunti da provvedimenti giudiziari. L’inchiesta conta nel complesso 21 indagati, 9 dei quali arrestati. Un guazzabuglio. Dove però una circostanza emerge chiara: il ruolo di dominus di Villani. E’ lui la guida dell’Alvi, prima palese, poi occulta. La comanda anche dopo le dimissioni formali da amministratore delegato dell’azienda, messe a verbale nel Cda del 22 febbraio 2006 “per i notevolissimi impegni assunti da Presidente della Provincia” (eletto nel 2004). Decine di testimoni confermano che era Villani il capo, era lui a stabilire le strategie e a convocare le riunioni. Alle quali arrivava con l’auto blu della Provincia (la Procura infatti gli contesta il peculato). La Finanza ha scoperto che anche dopo le dimissioni Villani per più di tre anni ha continuato a ricevere lo stipendio che percepiva da Ad: 15.628 euro netti al mese, reimpostati però come un co.co.co. Che hanno reso Villani il precario più ricco d’Italia. Anche questo dovrà spiegare davanti al giudice.