Viaggio nella città martire da giorni sferzata dai bombardamenti lealisti. I ribelli raccontano che buona parte delle strade sono nelle loro mani. Anche se i fedelissimi del Raìs stanno ancora asserragliati in alcuni palazzi. Tra loro molti giovani
La città martire di Misurata è ancora in guerra. Le battaglie degli ultimi tre giorni a suon di kalashnikov, mortai e razzi RPG, con ribelli che casa per casa cercavano di conquistare la parte Sud della città sono quasi terminate. “Misurata è praticamente nelle nostre mani – dice Salem, un ribelle di 23 anni che fino a 3 mesi fa lavorava per una delle tante compagnie italiane in Libia, mentre sta in guardia con il suo fucile di precisione al mercato della frutta di Tripoli street – ma ci sono ancora miliziani di Gheddafi intrappolati in alcuni edifici tra la facoltà di medicina e l’ospedale pubblico. Non sappiamo in che condizioni sono, visto che da tre giorni abbiamo praticamente circondato la zona e sono senza rifornimenti di munizioni e cibo”. Ma a fare paura, adesso che il grosso delle truppe del colonnello è all’esterno della città, sono i razzi sparati a random. Che anche ieri, sono arrivati al porto. In uno strano lunedì, dove i rumori delle mitragliatrici sono stati sostituiti da quelli dei mortai e missili, anche le ambulanze, che solitamente arrivano al fronte, stavano a distanza di sicurezza dal Western Gate della città, dove i ribelli hanno posizionato le mitragliatrici pesanti di stampo sovietico.
Il giorno di Pasqua, la città è rimasta sveglia con gli occhi verso il cielo per cercare di capire da dove arrivavano i missili. I minareti hanno scandito cori senza fermarsi dal tramonto all’alba. Difficile fare una stima delle esplosioni udite, ma da mezzanotte alle nove del mattino non si sono quasi mai fermate. Quattro, forse cinque grad, sparati uno dopo l’altro, hanno centrato una casa nel quartiere di Ras Amar. Le sette persone che c’erano dentro, tra cui un bambino, sono morti senza neppure arrivare all’ospedale. In uno scatolone bianco un anziano mostra i pezzi di corpo carbonizzati del piccolo che sono riusciti a recuperare tra le macerie della sua camera. Nello stesso quartiere almeno 5 edifici sono andati distrutti dai missili sparati dai lealisti. “In questa zona non ci sono mai stati scontri a fuoco – racconta Yousef, un residente dell’area – la maggior parte della gente se ne è andata da due mesi. Chi è rimasto nel quartiere ha passato le notti nelle case all’inizio della strada, in alcune case che hanno stanze sotto terra e sono più sicure. Quello che è successo ieri notte significa che oramai sanno di aver perso Misurata e vogliono ucciderci tutti”. A meno di duecento metri, nel grande cimitero del quartiere, si celebra il funerale dei civili morti. Un centinaio di persone, tutti uomini, danno l’ultimo saluto alle salme avvolte nei teli di nylon bianchi. Le mitragliatrici scaricano colpi di rabbia verso il cielo.
Intanto, alla clinica dove vengono portati i feriti, da due giorni arrivano miliziani di Gheddafi catturati dai ribelli. Hanno la faccia di ragazzini, spesso sono feriti e in condizioni pietose. Uno di loro, vivo, è seduto sul cassone del pick-up con tre giovanotti che gli puntano il mitra alla testa. “Hai ucciso mio figlio”, gli urla un uomo prima di sputargli. Ma viene subito fermato dai ribelli presenti e allontanato. Quando gli scatti delle macchine fotografiche sono abbastanza l’auto si allontana lasciando dietro di se la scia di polvere. Il luogo dove vengono portati i “prigionieri di guerra” deve rimanere segreto alla stampa. Su una barella c’è un altro combattente di Gheddafi. Dice di venire dalla “Mauritania, dove non c’è cibo e neppure vestiti”. “Sono venuto in Libia – racconta ai dottori – per trovare lavoro. Mi hanno reclutato e mandato a Misurata”. Ma giura che non ha mai “ucciso nessuno”. Quando la visita è finita un infermiere chiude la tenda del suo spazio e chiede gentilmente ai presenti di allontanarsi. Che fine farà nessuno lo sa.