Passate le feste pasquali e archiviate le rumorose polemiche sui manifesti milanesi che equiparano i giudici alle Br, la priorità tornano a essere i conti pubblici: “Nel biennio successivo (2013-2014), l’obiettivo programmatico di sostanziale pareggio del bilancio richiederà una correzione strutturale dei conti pubblici di oltre due punti di prodotto interno lordo (poco meno di 40 miliardi di euro)”, ha ribadito la Corte dei conti. E la Banca d’Italia ha chiarito che il momento in cui il governo deve annunciare le prime manovre drastiche è molto vicino, settembre 2011.
Nel mezzo il ministro del Tesoro Giulio Tremonti deve presentare il cosiddetto decreto Sviluppo, la manovrina estiva (che lo scorso anno doveva essere di 5 miliardi e poi si è trasformata, all’improvviso, in una mazzata da 25 miliardi). Il problema si può affrontare da due lati: da quello “tagli&tasse” o dal lato crescita. L’obiettivo è ridurre il rapporto tra debito e Pil come richiesto dal “Patto per l’euro” (approvato anche dall’Italia nel Consiglio europeo) di un ventesimo all’anno per la parte che eccede il 60 per cento del debito sul Pil (in teoria, per l’Italia, 45 miliardi all’anno, in pratica sarà un po’ meno). Trattandosi di rapporti in percentuale, o si cresce di più (e aumenta il Pil) o si taglia (e si riduce il debito). La Corte dei conti ha riassunto così l’atteggiamento del governo sulla crescita: “Nelle scelte governative il biennio 2011-2012 resterebbe affidato all’andamento spontaneo dell’economia”. Incrociano le dita e sperano.
All’opposizione non va molto meglio, non c’è nessuno che sembra pronto a raccogliere l’appello di Giorgio Fidel sul Corriere della Sera: “Uomini di Stato da lacrime e sangue, ecco cosa serve alla nostra politica”. C’è chi preferisce tacere e chi, con l’eccezione della Cgil, parla più di opportunità mancate che di sacrifici, nessuno spiega bene dove è disposto a tagliare. In fondo la campagna elettorale per le amministrative e l’attesa delle politiche è un problema condiviso, meglio lasciare il guaio in mano a Tremonti.
Nichi Vendola, leader di Sinistra ecologia e libertà, sull’argomento custodisce un rigoroso silenzio: nell’archivio dell’agenzia Ansa non si trova una sua sola dichiarazione sul Def, il Documento economico e finanziario che evidenzia la necessità della manovra da 40 miliardi. Zero interviste in materia. Nel concreto le idee di politica economica di Sel restano un mistero, così come quelle di Antonio Di Pietro, leader dell’Idv, più attento ai temi del lavoro e delle crisi industriali che alla finanza pubblica. Anche il Terzo Polo, in materia, è un po’ un enigma: “La linea del governo rischia di portare il Paese in una gravissima crisi recessiva in cui la scarsa crescita aggraverà la crisi finanziaria alimentando una pericolosissima spirale”, hanno dichiarato Pier Ferdinando Casini (Udc), Italo Bocchino (Fli) e Francesco Rutelli (Api). Ma poi non spiegano cosa farebbero loro, se fossero al governo, per affrontare questi conti pubblici. Idem la Cisl di Raffaele Bonanni, che in audizione parlamentare ha presentato uno striminzito documento di 8 pagine molto prudente che però nota come nei testi del governo “nessuna indicazione si trova su dove tagliare gli sprechi e le inefficienze delle pubbliche amministrazioni e i costi abnormi della politica”. E quello dei costi della casta è il tema prioritario anche per l’associazione di Luca Cordero di Montezemolo, ItaliaFutura, che ha appena lanciato una campagna per ridurre gli sprechi nei 4,6 miliardi di euro che finiscono alla politica ogni anno. Ma anche in questo caso niente analisi complessive sulla politica di bilancio e su chi deve pagare il risanamento.
Il Pd e la Cgil ci hanno provato. Il partito di Pier Luigi Bersani, con la consueta verbosità, ha elaborato 41 proposte di liberalizzazioni e un “progetto alternativo per la crescita” (107 pagine), da contrapporre al Piano nazionale delle riforme del governo, da presentare a Bruxelles. Al netto delle cose impraticabili (l’agenzia europea del debito e i piani europei di investimenti faraonici) e dei buoni propositi senza tempo (l’informatizzazione della pubblica amministrazione), la ricetta del Pd si riassume in questo: fisco più equo e aumento dell’occupazione femminile. Con una riduzione dal 23 al 20 per cento dell’aliquota del primo scaglione Irpef, imposta negativa (cioè pagamento delle detrazioni cui si ha diritto) a chi è senza reddito, e riduzione del carico fiscale sul lavoro dipendente. Idee analoghe, per la verità, a quelle sostenute in alcune occasioni dall’Idv. Le 41 liberalizzazioni riguardano i soliti settori, dall’RC Auto alle farmacie ai carburanti alle banche. È chiaro però che se il Pd fosse al governo non potrebbe limitarsi a questo, ma per risolvere l’emergenza immediata dovrebbe ragionare su politiche lacrime e sangue che nei documenti ufficiali restano tra le righe. La Cgil è più esplicita, nel documento presentato in Parlamento. Il sindacato di Susanna Camusso auspica la tassazione sulle operazioni finanziarie (come il Pd, ma non si può fare su base nazionale) e chiede l’aumento della tassazione sulle rendite finanziarie (dal 12,5 per cento al 20 per cento), oltre a una patrimoniale sulle “grandi ricchezze”. Ma propone una lista di misure di spesa per sostenere la crescita talmente lunga da legittimare il sospetto che i saldi di bilancio non migliorerebbero di molto, almeno a breve.
Le ricette di emergenza, quelle in stile ‘92-‘93 per ora vengono vagheggiate solo da chi critica il governo Berlusconi da destra. Carlo Lottieri, filosofo liberista dell’Istituto Bruno Leoni, sul Giornale ha suggerito vie ben più drastiche per abbattere subito il debito pubblico: privatizzare completamente Enel ed Eni e di tutte le municipalizzate controllate dai Comuni, cessione delle case popolari, cancellazione delle province. E per la crescita drastici aumenti della concorrenza (scorporando, per esempio, la rete ferroviaria dal gruppo Fs) e immediata trasformazione degli ordini professionali in semplici associazioni di categoria. Nessuno, nell’esecutivo e nell’opposizione, sembra pronto a ricette così drastiche. Per ora.