“Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi…”. Questo afferma il principe Fabrizio Salina in quella che, a ragione, viene considerata la più importante (e che certo è la più famosa) battuta de Il Gattopardo. E questo è anche quello che, mercoledì scorso, nel chiudere in perfetto orario un Congresso (quello del Partito Comunista Cubano) celebratosi con nove anni di ritardo, Raúl Castro ha ripetuto di fronte ai delegati plaudenti. Lo ha fatto, per la verità, il leader cubano, in modo capovolto e con assai meno radicali accenti, sostenendo, in sostanza, che se si vuole che a Cuba cambi qualcosa (quel poco che serve alla rivoluzione per sopravvivere), bisogna che tutto resti, in effetti, così com’è. E tuttavia, come vuole una risaputa legge aritmetica, invertendo l’ordine dei fattori, il prodotto resta inesorabilmente uguale a se stesso. O, per l’appunto, non cambia. Come accadeva (e tuttora accade) nella Sicilia di Tommasi di Lampedusa. E come, nella Cuba dei fratelli Castro, con impietosa obiettività statistica rivela l’analisi anagrafica del “nuovo” gruppo dirigente appena uscito dal VI Congresso del Pcc.
Il “nuovo” Buró Político del Partito – per l’occasione ridotto da 24 a 15 membri – oltre ad essere, con pochissime eccezioni, una galleria di “nomi storici” e di militari (sette, quasi la metà del totale), vanta infatti un’età media di anni 68, con cinque soli membri al di sotto di quella soglia (65 anni) che, in quasi tutto il pianeta, viene definita “pensionabile” (ed ad abbassare la media contribuisce, con i suoi verdissimi 45 anni, Mercedes López Acea, segretaria del partito nella Città dell’Avana nonché – altra inquietante testimonianza d’immobilismo – unica donna presente nell’alto consesso).
Ma ancor più gerontocraticamente drammatica appare la situazione se l’analisi si concentra sui tre nomi che, nel Buró (e, più in generale, nel regime), rappresentano la vera cupola del potere. Raúl Castro Ruz, finalmente asceso alla carica di Primer Secretario dopo quasi mezzo secolo vissuto all’ombra del fratello maggiore, ha, infatti, quasi 79 anni (li compirà il prossimo giugno). José Ramón Machado Ventura, oggi Segundo Secretario e a tutti gli effetti numero due del regime, ha molto discretamente doppiato la soglia degli 81 lo scorso ottobre. E di due mesi più vecchio di Raúl è il numero tre, Ramiro Valdés Menéndez, vicepresidente del Consejo de Estado y de Ministros, nonché Comandante de la Revolución e ministro degli interni negli anni durante i quali, tra i ’60 ed i ’70, il comunismo cubano ha più compiutamente definito la sua natura repressiva e autoritaria (“Ramirito” era stato giubilato nel 1986, in quella che era allora parsa una svolta “liberale”, ma è poi stato ripescato, e riportato ai più alti livelli, proprio da Raúl, nel 2006).
In tutto, dunque, quasi 240 primavere. Ventidue più di quante ne sommasse – nel 1977, al momento della sua dissoluzione – la decrepita troika (Brezhnev, Kossigin, Podgorny) che, per qualche anno (prima che l’imberbe Brezhnez, 71 anni, assumesse il controllo delle operazioni, poi mantenuto fino all’82, quando morì compiuti da poco i 76 anni), diresse l’Unione Sovietica dopo la caduta di Kruscev. E questo – va sottolineato – come risultato d’un Congresso tutto gattopardescamente consumatosi alla luce di due parole: “actualización” e “relevo”. Attualizzazione e cambio della guardia.
Come si spiega la contraddizione? Com’è possibile che, nel predicare la necessità e l’urgenza d’un “ringiovanimento dei quadri”, la rivoluzione cubana (o quel che ne resta) abbia scelto (ammesso che qualche libertà di scelta vi fosse nel Congresso) di continuare ad affidarsi a un gruppo dirigente in media considerevolmente più vecchio dell’uomo – il semi-mummificato Leonid Brezhnez, per l’appunto – che della senilità comunista era, a suo tempo, diventato (assieme all’ “ideologo” Suslov, morto a 79 anni) un alquanto irriso simbolo? Proverò, in un prossimo post, a dare la mia risposta a questa domanda. Ma intanto mi piacerebbe conoscere l’opinione dei lettori de Ilfattoquotidiano.it…