Confesso che ho sempre avuto un rapporto difficile con Lodi e il lodigiano. Per una catena di “convergenze” (come le chiamerebbe Nando Dalla Chiesa) che mi si sono infilate a forma di lama. Dal 2006 a oggi. Eppure non riesco a non amare Lodi e i lodigiani con l’amore (anche rancoroso, nelle sue curve peggiori) che si ha per la città in cui camminano i propri figli.
Ho seguito da lontano questi ultimi mesi di fuochi, riunioni, esperti dell’ultim’ora e balletti istituzionali: corse da una stanza all’altra come un adolescente che deve sistemare casa prima del rientro dei genitori. A nascondere le tracce e, come sempre, tutti poi a minimizzarle al bar. Ma non è delle contromosse difensive che voglio scrivere (pur apprezzando lo spirito e l’impegno della Prefettura e di alcuni consiglieri provinciali sul tema con, intorno, l’assordante silenzio dei soliti noti): il giudizio sulla “battaglia” ho deciso da un pezzo di lasciarlo ai nostri figli.
Mi tocca piuttosto questa terra ferita e bruciata come una donna lasciata sul marciapiede tra i cartoni, mi tocca la coltre intorno ai tanti giovani che continuano a scriverne e riunirsi e parlarne e alla fine rimbalzano, mi tocca la penna dei giornalisti e direttori che ne scrivono ma rimangono solo opinioni, mi tocca l’impegno di (troppo pochi) politici che vengono additati come esibizionisti e mi tocca la solitudine delle forze dell’ordine. Mi tocca, più di tutto, una terra incapace di trasformare un allarme in un comune sentire.
L’anno scorso venni invitato, a Napoli, a parlare della “terra di fuochi”: un’isola tra Qualiano, Villaricca e Giugliano che brucia rifiuti come un fumento quotidiano di pneumatici, rottami e veleni. Una signora anziana mi disse che dalle città normali dovrebbero alzarsi i palloncini, mica i fumi. Me lo disse con un dolore che non si riesce a scrivere.
Da qualche anno il Lodigiano ha smesso di liberare palloncini e ha cominciato ad annusare roghi. Numeri disarmanti, falò come un rito tribale per parlarsi con il fumo, «una strategia per alzare la tensione nel settore e per riprendersi fette di mercato, da parte di qualcuno, che sono state perse: una sorta di concorrenza scorretta ricorrendo a condotte di carattere criminale», dice il sostituto procuratore Paolo Filippini. Quindici incendi in impianti per lo stoccaggio o il trattamento dei rifiuti a partire dal 2003. Ben otto a partire dall’ottobre scorso. A gennaio si mette ad indagare anche l’antimafia. Impianti diversi dove si rincorrono gli stessi cognomi, come in un film dell’orrore con una trama annunciata.
L’ultimo incendio, invece, è un incendio che lascia macerie a forma di macerie. Di quelle che ti rimangono nel naso per anni. Ne scrive Fabio Abati su Ilfattoquotidiano.it, ne avevo parlato nel mio blog (meritandomi una telefonata in cui mi si diceva che era “roba a cui stare attento”, come nei film western). Una storia con troppe ombre in cui galleggia una cooperativa all’interno di una cartiera con una donna alla presidenza. Una donna che qualche mese fa sparisce, viene messa sotto protezione, come nelle storie che stentiamo a credere: è la moglie di Giovanni Costa, nativo di Gela, poi camionista a Caserta, poi residente a Lodivecchio prima di sposarsi con la presidente della cooperativa e trasferirsi a Sant’Angelo Lodigiano. Giovanni Costa viene arrestato nel maggio 2010 nell’ambito di un’inchiesta della Dda di Napoli sul “cartello” del crimine organizzato per il mercato ortofrutticolo nel Centro Sud. Lui si professa innocente per bocca del suo avvocato ma qualche “vecchio amico” si convince che stia parlando troppo. Così scatta il programma di protezione.
Nicola Piacente, il procuratore antimafia che sta seguendo le indagini, lascia un frase sul marmo: “Se le indagini stanno procedendo con queste tempistiche e non possiamo dare ancora nessuna risposta alla gente che si preoccupa di quello che gli accade sotto casa, è perché forse ci aspettavamo maggiore collaborazione da parte di chi quegli incendi li ha subiti”. Come nella terra dei fuochi.
La paura mangia l’integrità dell’uomo, diceva Karekin I, e la sonnolenza lo stordisce. C’è un pezzo di terra da difendere con i denti. Diceva Giuseppe Gatì: questa è la mia terra e io la difendo. E tu?