In questi mesi abbiamo assistito ad alcuni cambiamenti geopolitici che hanno travolto moltissimi regimi considerati immodificabili. Fatti che, da un punto di vista storico, potranno essere letti nella loro importanza solo in futuro.
Una rivoluzione straordinaria, una nuova voglia di democrazia, paragonabile, forse, all’energia delle popolazioni che si sono liberate nel XX secolo dai loro colonizzatori.
Un vero e proprio “Risorgimento arabo” come lo ha chiamato, con un termine più che mai appropriato, il Presidente Giorgio Napolitano.
Popoli che sentono per la prima volta il profumo della libertà, che immaginano di potere ampliare la propria sfera dei diritti, non volendo più essere dei sudditi con solo dei doveri.
Migliaia di persone sono scese nelle piazze e nelle strade dell’Egitto, della Tunisia, della Libia e di tanti altri Paesi con un’energia difficile da contenere.
Molti commentatori li hanno definiti “resistenti” e non “ribelli”, interpretando al meglio il significato di una fase storica epocale.
Una delle conseguenze immediate, specie per Paesi vicini geograficamente come l’Italia, è stata che migliaia di persone sono fuggite cercando in Europa un punto di approdo.
Una situazione che deve essere certamente coordinata dall’Unione Europea, ma che non può mettere in crisi Paesi come l’Italia: si tratta di un fenomeno importante da un punto di vista numerico, ma non terrificante. Cosa dovrebbero dire o fare Paesi come la Siria che ospita circa tre milioni di profughi iracheni e quattrocentomila libanesi sfuggiti alla guerra su una popolazione totale di diciotto milioni di persone?
E’ chiaro che se il ministro Maroni utilizza il termine “tsunami umano” per definire il problema dell’arrivo dei migranti, forse qualche problema di approccio culturale oltre che pratico esiste. La tecnica mediatica di riempire Lampedusa di persone per terrorizzare l’Italia e poi annunciarne lo svuotamento, sul modello della spazzatura a Napoli, ha un effetto di breve durata. E le conseguenze le vediamo in questi giorni.
E’ singolare che la soluzione alla crisi maghrebina alla quale molti Paesi a democrazia avanzata, Francia in primis, hanno pensato è stata quella di bombardare: così è avvenuto in Libia. Proprio nel Paese di Gheddafi ci troviamo in piena contraddizione: europei ed italiani, dopo aver riempito i depositi libici vendendo armamenti in cambio di petrolio, combattono oggi contro quelle stesse armi.
Forse vale la pena di riflettere sul fatto che la cultura della pace non è semplicemente l’organizzazione di iniziative ad ogni scoppio di una nuova guerra: pace non è solo opposto di guerra. Penso che una nuova cultura pacifista debba essere costituita da tante azioni continue e quotidiane che concepiscano la pace in un senso più globale: diritti, libertà, giustizia, lavoro, sviluppo.
Occorre poi una fortissima denuncia di chi produce ed esporta armi: pensiamo all’Europa, che risulta il principale esportatore di armi nel mondo, o all’Italia che, dati 2008-09, è il secondo esportatore nell’Unione Europea dopo la Francia. Proprio nei giorni della crisi libica il ministro della Difesa Ignazio La Russa si trovava ad Abu Dhabi ad Idex 2011, la Fiera internazionale delle armi.
Mi piace pensare alle parole di Aldo Capitini, uno dei padri del pacifismo italiano, quando ricordava che è necessaria una “opposizione integrale alla guerra e alla sua preparazione”. Ecco, se saremo in grado, raccogliendo la sfida di Capitini, di creare una cultura di pace che abbia al centro anche una opposizione agli “strumenti” che rendono possibile la guerra, saremo in grado di creare una alternativa credibile e di non dovere alzare le bandiere della pace solo quando scoppia una delle tante guerre nel mondo.