L'esplosivo è lo stesso che venne usato sette anni dopo in via D'Amelio: queste le conclusioni ai quali sono arrivati i magistrati della Dda di Napoli. L'ordine di custodia cautelare notificato al "capo dei capi" in carcere. La soddisfazione (a metà) dei familiari delle vittime
Il cui obiettivo – stando agli inquirenti partenopei – non sarebbe stato quello di “destabilizzare per stabilizzare” lo status quo politico italiano e internazionale, come nel caso della strategia della tensione degli anni Settanta. Ma avrebbe avuto un altro scopo: intimidire Giovanni Falcone e Paolo Borsellino che, sulla scia del sangue versato con la cosiddetta “seconda guerra di mafia”, avevano iniziato con le attività investigative che avrebbero portato due anni più tardi al maxiprocesso di Palermo, iniziato il 10 febbraio 1986 e conclusosi il 16 dicembre 1987.
I magistrati assassinati nel 1992 non si fecero però impressionare dall’attentato del 1984 tanto che all’apertura delle udienze, nell’aula bunker dell’Ucciardone, portarono 475 imputati sui quali pendevano 438 capi di imputazione (di cui 120 per omicidio). E a sentenza, pronunciata dopo 35 giorni di camera di consiglio (e le cui motivazioni richiesero 8 mesi di lavoro a Pietro Grasso, dal 2005 procuratore nazionale antimafia), vennero comminati 19 ergastoli e migliaia di anni di carcere.
Tutto questo lavoro, secondo la Dda di Napoli, non sarebbe mai dovuto iniziare e per impedirlo si fecero 15 vittime (salite a 17 per la morte di due feriti) nella galleria tra Firenze e Bologna lunga 18 chilometri.
Le reazioni delle vittime. Paolo Bolognesi, presidente dell’Unione familiari vittime per le stragi e dell’Associazione vittime per la bomba del 2 agosto 1980, vede nel provvedimento napoletano una conferma del ruolo della mafia siciliana nel periodo stragista. Un coinvolgimento che, già individuato fin dal golpe Borghese del 1970, è stato via via approfondito giungendo poi all’ultimo processo per la strage di piazza della Loggia, avvenuta a Brescia il 28 maggio 1974.
“È importante il coinvolgimento di Riina perché dimostra i collegamenti e gli scambi che ci sono stati tra criminalità organizzata e criminalità politica. Adesso però occorre avanti perché, prima o poi, si dovrà confermare il raccordo tra apparati dello Stato, mafia e camorra”.
E lancia anche una stoccata alle cosiddette “piste alternative” alle stragi, a iniziare da quella che lo coinvolse direttamente. “Vorrei far notare che, nei documenti della commissione Mitrokhin che per il terrorismo italiano chiama in causa anche i palestinesi, si parla di Carlos, cioè di Ilich Ramirez Sanchez, come personaggio coinvolto nei fatti del 1984, oltre che in quelli del 1980. Le novità napoletane ancora una volta smentiscono alcune risultanze di una commissione parlamentare che non ha contribuito finora a fare luce su alcunché”.
Per quanto prudente e in linea con le posizioni di Bolognesi, Antonio Celardo, presidente dell’Associazione dei familiari delle vittime del Rapido 904, vede uno spiraglio nell’ordinanza partenopea. “Premetto che sto apprendendo dell’indagine dalla stampa e non ho ancora visto le carte. Dunque, per adesso, il mio è un giudizio a caldo, ma posso dire che la direzione verso la mafia non è un’assoluta novità e non lo è nemmeno il collegamento con la camorra”.
“Ciò che ci stupisce però sta altrove”, prosegue Celardo formulando una serie di interrogativi. “Intanto perché, sul fronte cosa nostra, non si è proceduto ad approfondire i collegamenti di Pippo Calò, condannato in via definitiva per la strage del 23 dicembre 1984, con il mondo dell’eversione nera e con la banda della Magliana, realtà che con sé portano ad apparati dello Stato? E poi perché attendere oltre 26 anni per imboccare questa pista? Non è credibile che il coinvolgimento di mafiosi come Calò fosse stato taciuto ai loro capi, tra cui Totò Riina. Inoltre oggi si afferma che l’esplosivo sia compatibile con quello utilizzato a Palermo, in via d’Amelio, il 19 luglio 1993, ma la stessa compatibilità – si disse in sede giudiziaria – era stata riscontrata anche con il materiale custodito in alcuni depositi di Gladio”.
“Detto questo”, conclude il presidente dell’associazione vittime, “l’azione della magistratura che ha portato alla notizia di oggi ci conforta perché ci lascia intravedere uno spiraglio di ulteriore verità in quell’attentato”.
L’esplosione nella galleria della Direttissima. Tornando ai fatti, i primi soccorritori, giunti un’ora e mezza dopo lo scoppio del 23 dicembre 1984, una domenica prenatalizia, notarono subito un “forte odore di polvere da sparo”. Come a piazza Fontana, il 12 dicembre 1969, e come alla stazione di Bologna, il 2 agosto 1980. Che fosse un attentato, l’ennesimo, fu subito evidente e così quel treno andò in un primo momento a infittire l’elenco delle stragi che dalla Banca Nazionale dell’Agricoltura aveva attraversato gli anni di piombo passando, tra gli episodi principali, per Gioia Tauro (22 luglio 1970), Peteano (Gorizia, 31 maggio 1972), Brescia (28 maggio 1974) e l’Italicus, esploso sempre a San Benedetto Val di Sambro (4 agosto 1974).
Le perizie disposte dalla procura della Repubblica di Bologna accertarono che a far detonare l’ordigno era stato un dispositivo elettronico fatto scattare quando il treno, qualche minuto dopo le 19, aveva imboccato la galleria e l’esplosione avvenne all’altezza dell’ottavo chilometro dall’ingresso sud. Era in un tratto rettilineo e il convoglio viaggiava a 150 chilometri orari.
Poi l’inchiesta fu trasferita a Firenze e tra il 1985 e il 1986 l’allora pubblico ministero Pierluigi Vigna (che dal 1997 al 2003 sarà procuratore nazionale antimafia) arrivò a una svolta arrestando due persone: Guido Cercola e Giuseppe Calò, detto Pippo, considerato il luogotenente di cosa nostra a Roma. Inizialmente finiti nei guai per vicende di droga, in loro possesso venne trovato materiale elettrico adatto a costruire un detonatore (e che si portò dietro un’imputazione per un cittadino tedesco, Friedrich Schaudinn) ed esplosivo compatibile con quello utilizzato l’antivigilia di Natale del 1984.
L’ingresso di Calò nell’indagine si trascinò dietro i suoi rapporti con la P2, con la banda della Magliana e a cascare con l’eversione nera romana dei Nar (i Nuclei armati rivoluzionari fondati a metà degli anni Settanta dai fratelli Cristiano e Valerio Fioravanti, quest’ultimo condannato insieme a Francesca Mambro e a Luigi Ciavardini come esecutori della strage alla stazione di Bologna).
La vicenda processuale: un iter tortuoso. La permeabilità tra questi mondi rese sui generis la bomba del 1984, che già si staccava dall’ottica “classica” della strategia della tensione. E questa particolarità emerse nero su bianco fin dal 25 febbraio 1989 quando la Corte d’Assise di Firenze pronunciò la sentenza di primo grado che condannava anche personaggi legati alla camorra e in particolare al clan di Giuseppe Misso, boss del rione Sanità. In secondo grado, il 15 marzo 1989, furono confermati gli ergastoli per Cercola e Calò mentre Misso e altri imputati furono assolti per il reato di strage, ma condannati perché detenevano esplosivo. Meno bene andò al tedesco Schaudinn, assolto per la banda armata e in galera invece per l’eccidio.
Tutto da rifare il 5 marzo 1991 quando la Cassazione, presieduta da Corrado Carnevale (che si guadagnò il soprannome di “ammazza sentenze” e che poi finirà nei guai per concorso esterno in associazione mafiosa venendo alla fine prosciolto), annullò tutto e dispose il rinviò a Firenze dove nel 1992, con l’eccezione di Calò e Cercola (a cui fu confermato l’ergastolo), furono comminate pene meno severe per quasi tutti gli imputati. Quello stesso anno giunse il secondo giudizio di Cassazione, che questa volta accolse la sentenza e definì la strage del 1984 di “matrice terroristico-mafiosa”.
Nella vicenda processuale finì anche un esponente del Movimento Sociale Italiano, Massimo Abbatangelo, il cui iter processuale ebbe una propria storia venendo stralciato dal troncone principale. Assolto per il reato di strage, si vide comminare 6 anni di reclusione perché avrebbe fornito l’esplosivo al camorrista Misso. In quest’ultimo caso, i familiari delle vittime presentarono ricorso, ma persero e furono costretti a rifondere le spese processuali.