L’improvvisazione in musica è una pratica che si presenta in moltissimi ambiti, oserei dire in tutti. Quindi esistono molte pratiche improvvisative, molti approcci, così come forse si dovrebbe parlare di musiche al plurale piuttosto che di Musica. Con improvvisazione però si intende sempre un insieme di pratiche e di processi che consentono la creazione di musica nel momento stesso in cui la si suona, un insieme di pratiche e processi che hanno regole e modi ben precisi, che insomma si imparano, si tramandano, richiedono studio, abilità e così via. L’improvvisazione per l’appunto non si improvvisa: se pensiamo la musica come un linguaggio, allora bisogna imparare a parlarlo.
A seconda del tipo di cultura musicale, l’improvvisazione occupa uno spazio più o meno ampio, assume particolari aspetti e peculiarità, può essere marginale oppure centrale nell’atto creativo, a volte è quasi solo un aspetto dell’interpretazione, altre invece è proprio un modo di comporre. Il Jazz è la musica attraverso la quale personalmente ho imparato ad improvvisare; in questo ambito la norma consiste, detto nel modo più semplice, nell’inventarsi frasi musicali su di un canovaccio prestabilito. Negli ultimi cinquanta anni però il linguaggio dell’improvvisazione si è molto sviluppato e diversificato, il rapporto tra composizione e improvvisazione, tra canovacci ed estemporaneità, è diventato molto complesso: ci sono occasioni musicali dove non si prevede nulla di prefissato, quindi tutto è lasciato alla creatività del momento, altre volte invece si usano materiali pre-composti in maniera mobile, come mattoni modificabili e interpolabili, nel flusso improvvisativo intervengono in maniera imprevedibile motivi ed incisi “scritti”, oppure si usano segnali, appunti per strategie varie fino ad arrivare a veri e propri giochi; tutto ciò insomma che può essere utile a dare direzioni sempre diverse alla improvvisazione e infine alla musica.
Quando però si dice che si improvvisa dal niente e tutto si crea sul momento, bisogna prendere questa affermazione con molta cautela: se può esser vero che non ci sono temi, strutture prefissate e canovacci vari, è pur vero che ci sono in sostituzione modi di fare, stili collettivi e personali che pre-esistono alla composizione istantanea vera e propria; ogni approccio (personale, di gruppo, di comunità) ha le sue caratteristiche, ogni stile ha ciò che viene considerato congruo e cosa no, anche se i confini sono sempre labili e cambiano nel tempo. Così- almeno nei casi migliori- gli improvvisatori lavorano per “inventarsi” nuove parole e nuove tecniche con cui esprimersi, sia in solitudine che in gruppo; invenzioni da sottoporre poi alla prova della musica suonata. E’ chiaro che l’aspetto di ricerca è quindi essenziale in questi ambiti.
Al di là di questa complessa fenomenologia, c’è un elemento che ritengo imprescindibile per comprendere a fondo le pratiche improvvisative: il loro potenziale sociale e il loro carattere interattivo. Quando l’improvvisazione diventa collettiva, quando per intendersi non si limita al semplice intervento solista ma è basata in profondità sull’ascolto ed il supporto reciproco, allora sì che diventa un processo di composizione, di vera creazione collettiva: un gruppo musicale costruisce musica in tempo reale attraverso codici più o meno condivisi, usando certamente regole, che però si trasformano dialetticamente, in divenire. Qui avviene qualcosa di molto importante e che secondo me travalica il mero aspetto musicale: intanto la composizione istantanea è un processo in atto più che una rappresentazione, non è qualcosa di finito e/o chiuso; basti pensare alle “regole”: sono quelle stabilite, si modificano, si “abbattono”, ne entrano di nuove. E poi: qual è il rapporto tra l’individuo e il collettivo? I ruoli non sono prefissati, non sono stabili, le gerarchie non ci sono, se non momentanee, cambiano in continuazione; ognuno si assume, momento per momento, la responsabilità delle sue scelte, che sono inserite in una sorta di spazio/tempo multidimensionale, lo spazio in cui la musica avviene; le scelte individuali sono “nel collettivo”, per il collettivo, la libertà individuale è inserita in un linguaggio e in un processo la cui risultante è un pensiero collettivo, e non si tratta di romantica armonia perché tutto è posto continuamente in discussione.
Dai primi anni 70 in poi si è iniziato a parlare di musica improvvisata radicale, libera improvvisazione, free-music e non so quali altri termini ancora sono stati usati. Si tratta di etichette di comodo, basti pensare alla vaghezza di termini come libertà, free e così via: qualcuno ha detto, giustamente, che è difficile parlare di musica libera in un mondo che libero non è. Ma insomma…dagli anni 70 in poi dicevo si è venuta a creare una sorta di comunità di improvvisatori un po’ in tutto il mondo e con un background col passare del tempo sempre più vario. Attualmente è sempre più facile incontrare musicisti che provengono non solo dal jazz ma anche dal rock, dall’elettronica, dal punk, addirittura dalla musica cosiddetta colta! ( ma riparleremo delle improvvisazioni dei vari Mozart e Beethoven). Si è col tempo creato un linguaggio comune che consente l’incontro tra musicisti in origine così diversi e con esso pure i cliché e gli stereotipi, ci mancherebbe. Per approfondire alcuni aspetti al riguardo, anche storici e politici, consiglio la lettura di almeno questi due libri: l’ormai classico ma ristampato di recente e tradotto in italiano “L’improvvisazione : sua natura e pratica in musica” di Derek Bailey, Pisa : ETS, 2010 e poi di George Lewis “A Power Stronger Than Itself”: The AACM and American Experimental Music, University of Chicago Press, 2008, purtroppo solo in inglese.
Ma se la musica è un linguaggio, se l’improvvisazione una pratica, una pratica si può imparare; allora l’improvvisazione, dal punto di vista didattico, può essere intesa da due diversi punti di vista: pratica da imparare, ma anche pratica attraverso cui imparare la musica.
Può essere utile allora l’improvvisazione in un apprendimento della musica che sia di base?