Da Casablanca a Rabat passando per Tangeri, Agadir e Fes. Da febbraio migliaia di persone in maniera pacifica sono scese in piazza per chiedere riforme e lotta alla corruzione. In breve, più diritti. È la versione marocchina della Primavera araba. Che, sebbene non si sia trasformata nel fiume in piena tunisino, egiziano, libico e siriano, in quanto a carica innovativa non difetta di nulla.

Oggi, davanti ai resti del caffè Argana nella piazza Jamàa F’naa a Marrakech, molti temono che tutto questo passi in secondo piano, che la monarchia opti per un nuovo regime di polizia e che la stagione di riforme avviata nelle scorse settimane finisca polverizzata sotto la minaccia terroristica.

Davanti alla pressione della piazza, il governo ha creato di recente un Consiglio sui diritti umani e il Re Mohamed VI ha concesso la grazia a oltre 100 detenuti per motivi politici. Non solo: nei giorni scorsi esecutivo e sindacati hanno annunciato l’aumento di 50 euro netto sul salario dei funzionari pubblici a partire dall’1 maggio e si sono impegnati a firmare un rialzo della pensione minima e del salario agricolo. In programma, poi, ci sarebbe anche la riforma della legge di bilancio, che nella nuova versione vedrebbe potenziato il ruolo del parlamento con poteri di controllo preventivo sul bilancio pluriennale e di indirizzo politico sull’operato del governo.

È stata questa la ricetta con cui, fino a oggi, la monarchia ha risposto alle proteste del “Movimento 20 febbraio”, delle 80 reti della società civile riunite nel Consiglio nazionale di appoggio al movimento, delle ong per i diritti umani e degli attivisti del movimento islamico Giustizia e Carità. Una politica, però, che alle concessioni ha mischiato anche la consueta repressione, evidente nel pugno di ferro usato dalla polizia nelle manifestazioni “minori”: il 13 marzo scorso, secondo Amnesty International, gli agenti avrebbero ferito decine di persone e arrestate almeno cento.

Per i tanti protagonisti delle manifestazioni (300mila a febbraio e molti di più il 20 marzo) le aperture della monarchia, comunque, non bastano. E su twitter, Facebook e blog chi protesta continua a chiedere piena democrazia in tutto il Paese, e la revisione dell’articolo 19 della Costituzione che definisce il re “comandante dei credenti”.

La situazione economica e sociale in Marocco, del resto, è molto delicata. Il Pil pro capite non arriva ai 5mila dollari annui, il sistema produttivo in molti comparti è ancora arretrato e il 44% degli occupati lavora nel settore dell’agricoltura. Se negli ultimi anni la crescita economica è stata del 3% annuo in media, il divario sociale e la crescita demografica condannano una buona fetta della popolazione alla povertà. Secondo l’indice Imp utilizzato dalle Nazioni unite (oltre al reddito comprende indicatori come scolarità, mortalità infantile, grado di malnutrizione) il tasso di povertà nel 2010 sarebbe stato del 28% con 8,9 milioni di poveri. Molto peggio che in Guatemala, Egitto e Tunisia.

Adesso uno dei banchi di prova per capire in che direzione si muoverà la monarchia, divisa tra le pressioni popolari e la facile deriva autoritaria dopo l’attentato di Marrakech, sarà la messa in pratica o meno delle promesse del discorso del 9 marzo, quando re Mohamed VI aveva annunciato un’imminente riforma costituzionale. Fra i suoi punti cardine, la creazione di parlamenti regionali che limiterebbero lo strapotere dei governatori di nomina reale e l’indipendenza della magistratura.

di Tiziana Guerrisi

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