Avevo dimenticato quanto scrivere, un tempo, fosse una questione essenzialmente corporea, un’attività che richiedeva dinamismo ed energia, fermento e movimento. L’uomo, infatti (il titolare forse di una vecchia agenzia di spedizioni e trasporti), preso da quell’antico esercizio di scrittura, sudava profusamente dalle tempie, la sua camicia azzurra era chiazzata in prossimità delle ascelle e nelle due risacche sotto il petto. Le pale di un ventilatore, che ruotavano da un angolo del piccolo ufficio ombroso, erano la testimonianza ulteriore dell’inveterata resistenza dell’uomo alla modernità, del suo ostinato e autoindotto digital divide.
Pur essendo ancora relativamente giovane ed essendo cresciuto nell’era in cui la valenza dell’informatica in termini socio-economici ha scalato la piramide di Anthony (uno dei più famosi sistemi di classificazione per l’organizzazione delle industrie), fino a raggiungere il livello più alto, quello strategico, ho fatto anch’io in tempo a possedere e a utilizzare, perfino con una certa assiduità, non una, ma ben due macchine da scrivere. La prima, una Olympia degli anni Settanta recuperata a sedici anni dagli scarti di un upgrade tecnologico di qualche vicino di casa. La seconda, una grossa elettronica Olivetti con i tasti morbidi molto simili alla tastiera di un computer, sulla quale scrivevo le mie tesi scolastiche.
Reperire i nastri già allora era un problema, immagino cosa debbano passare oggi scrittori come Vassalli, Ceronetti o Arbasino, che nel 2011 perseverano ancora a declinare le lusinghe del computer. Ora che al libro di carta si è affiancato l’e-book, ora che in India ha chiuso anche la Godrej and Boyce, l’ultima fabbrica di macchine da scrivere del mondo, lasciando invenduti nei suoi magazzini 500 modelli in lingua araba.
Resta allora quel po’ di sentimentalismo per un oggetto che ha segnato un’epoca della storia dell’uomo. E immagino quelle macchine da scrivere che non avranno mai un padrone, come gli ultimi uomini sulla Terra che vagano nelle lande desolate, accatastate sugli scaffali impolverati della vecchia fabbrica di Mumbai, a trattenere nel silenzio 500 romanzi mai scritti.