Comiso mi riporta indietro agli anni di una ancora non troppo remota giovinezza. Mi rilancia le immagini di giorni di passione civile, di scontri duri, il dolore di una violenza subita con quella pazienza dura che avevano i comunisti. Mi rilancia, questo nome, l’immagine di un uomo non più giovane ma non ancora anziano, che pur sotto la canicola, che già ad aprile attanagliava questa contrada di Sicilia, non smetteva una giacca grigia, concedendo a se stesso solo l’eliminazione della cravatta e il colletto della sua camicia candida allargato con un gesto quasi disperato. Stava su un palco mentre, sotto, gli Inti Illimani accordavano strumenti andini. Stava a spiegare ad una folla che arrivava a perdersi sotto le colline coperte di serre, che in quella terra grassa andavano piantati i pomodori e i peperoni, che erano la vera ricchezza e che quell’aeroporto doveva servire a farli arrivare nei mercati più lontani, che quelle piste non dovevano servire ad ingrassare le imprese mafiose e a far da rampa di lancio ai missili atomici in quell’ultimo feroce scampolo di guerra fredda.
Quell’uomo in grigio aveva la faccia asciutta come un legno d’olivo scavato dal tempo. Ci spiegava che quella era la battaglia vera per cambiare quel mondo che pareva non si potesse cambiare, che sulla nostra strada avremmo trovato i manganelli certo, ma anche le coppole storte degli uomini d’onore che, diceva, non sarebbero rimasti a guardare.
Quella faccia scavata, asciutta come un legno antico mi guarda muta. Coperta da un sottile velo che sembra ammorbidirne la severità contadina. Un velo come quelli che usano le spose nei paesi dell’interno. Come quello con cui nei giorni prima delle nozze le amiche avvolgono i confetti da lanciare agli invitatati. Un velo che pare coprire un scultura pronta ad essere svelata. Ma la faccia non è la stessa che vedevo tra i viottoli di Comiso. Aveva un piccolo insignificante dettaglio. Un foro, sotto la guancia. Un foro piccolo, scuro. L’unica traccia visibile della raffica del Thompson che lo aveva schiacciato con furia vigliacca. Una raffica che lui, quell’uomo con la giacca grigia e il volto secco di un contadino, aveva preso a calci, quasi un ultimo sprezzante segno di disprezzo e di orgoglio gettato in faccia a chi gli dava la morte.
Pio sembrava non si curasse di noi che ci mangiavamo lacrime, paura e rabbia facendogli corona funebre attorno. Sembrava che, con quell’aria distratta, ci dicesse di andar a fare cose più serie e non perdere tempo con tutte quelle formalità.
Comiso mi rilancia un’altra mattinata di canicola. Stavamo sotto le ali gigantesche di un Galaxi per cercare scampo al tormento del sole, mentre nel ventre dell’aereo scomparivano tante lunghe bare d’acciaio, ognuna con dentro due coppie di Cruise a testata atomica. Non ci ero mai entrato dentro l’aeroporto di Comiso, nonostante i molteplici tentativi naufragati tutti sotto i manganelli o gli idranti.
Mi feci mandare apposta per girare il servizio per il telegiornale. Spiegai al mio direttore che volevo godermela quella scena, dopo le tante legnate prese. E lui fu d’accordo.
A Comiso pensavo di tornarci una di queste mattine a godermi il nome di quell’uomo dalla giacca grigia e dalla camicia candida scritto sull’insegna. Il nome di un sogno, ieri spento a raffiche di mitra e oggi cancellato dall’arroganza stupida di un piccolo sindaco di provincia che pensa di poter far dimenticare la Storia.
Forse quel nome sull’insegna non lo troverò più, ma forse ci incontrerò un vecchio amico che, quasi certamente, di tanto in tanto ancora passeggia per quei sentieri e magari avrà ancora voglia di far due chiacchiere con uno di quegli scapestrati che lo facevano arrabbiare e che inutilmente tentava di rimettere in riga. Se sarà così, forse gli chiederò se, con quella sua giacca sulle spalle non ha caldo, magari siederemo a bere un bicchiere di Cerasuolo in quella piccola bettola che sta all’incrocio con la via che porta in paese. Sarà comunque una bella mattina.