«Buongiorno, direttore. Si ricorda di me? Vorrei fare il giornalista». La telefonata iniziò proprio così. Nel più scontato dei modi.
«Portami qualcosa che hai scritto» aveva detto Pippo Fava tagliando corto, come si fa sempre con i principianti. Quello appena passato, il 1979, era stato l’anno dedicato dall’Onu all’infanzia. Il tema mi sembrava d’attualità. Nei due giorni successivi alla mia imbarazzata telefonata avevo scritto un pezzo, anzi un’arringa, sull’infanzia abbandonata, sfogliando qualche libro e consultando statistiche sulla fame nel mondo e sullo sfruttamento del lavoro minorile nel Sud d’Italia.
Il mio amico Sergio stava per laurearsi in psicologia e faceva il volontario al brefotrofio della città. «Trecento bambini abbandonati, senza assistenza, sbattuti in uno stanzone bianco per ore…» mi aveva raccontato. Così avevo riempito quattro facciate, dattiloscritte in spazio 1, fitte di commenti sul pericolo che l’umanità dimenticasse la parte più indifesa di se stessa. Poi ero andato al giornale, di lì a poco la mia prima redazione.
Era il 2 marzo 1980, per l’esattezza. Avevo ventuno anni e, in quei mesi, mio padre stava morendo di tumore. Stringevo in mano il pezzo che Fava mi aveva chiesto. Mi ero fatto annunciare dalla segretaria del direttore di quel quotidiano non ancora nato, ma con i corridoi già affollati di miei coetanei. L’attesa era durata una decina di minuti. (…)
Dieci giorni dopo l’esordio del «Giornale del Sud», mio padre morì. Quella notte ero tornato a casa tardissimo; all’inizio si facevano sempre le due o le tre per confezionare il giornale in tipografia. Appena socchiusa adagio la porta di casa, sentii il fischio di mio padre morente, un segno convenzionale tra noi.
«Come stai? Ancora sveglio?»«Bene, bene. E al giornale? E Pippo Fava, come sta?» Era ormai cieco, ma lucido. Fino alla fine. (…)
Non aveva ancora sessant’anni. Aveva cominciato a stare male un anno prima. La città lo aveva stritolato. Le barzellette non erano bastate a rendergli la vita felice. Lui aveva continuato a raccontarle anche ai funzionari di una cassa artigiana e rurale della quale era notaio da vent’anni. Un funzionario di quella cassa, tra una risata e l’altra, gli aveva fatto firmare alcuni certificati a falsi o inesistenti artigiani. E così era finito per un mese in carcere per falso in atto pubblico, per aver raccontato barzellette vere mentre firmava atti che non sapeva falsi. Lo scandalo aveva fatto rumore. Il notaio più simpatico e onesto della città era stato sbattuto in prima pagina accanto a politici e funzionari corrotti ideatori della truffa. La sua vita era finita in quel momento, travolta da una città di cui non si era accorto, camminandovi dentro sorridente e inconsapevole: come un cieco sul ciglio di un burrone. (…)
La mattina dopo la sua morte, Fava scrisse di lui sul giornale, del suo sorriso bambino, della sua onestà e simpatia. Quasi l’epitaffio di una città morente. Tornai al lavoro dopo qualche giorno, e Fava, paterno ma sbrigativo, disse: «Mettiti sotto! Ora hai un motivo in più per iniziare a fare bene e fino in fondo questo mestiere. Mi dispiace…». Poi, mentre uscivo dalla sua stanza, comunicò: «A proposito, da domani passi alla cronaca nera». La stanzetta della cronaca nera era affollata da ragazzi: meno di cento anni in quattro, sedici ore in movimento su ventiquattro. L’inizio di un’avventura. A metà luglio, in piena festa della Madonna del Carmine, fu ucciso un uomo.
Mentre l’orchestrina suonava “Gelosia”… titolò pomposamente il «Giornale del Sud». La cronaca era firmata da me, ma interamente riscritta dal direttore. In piazza Bovio, centro storico, poco dopo l’omicidio, c’era ancora un sacco di gente. Un tempo quella era la festa dei catanesi, l’inizio della stagione balneare, l’occasione per fare scalzi – ricchi e poveri, buoni e cattivi, mafiosi e onesti – il pellegrinaggio con il cero in mano. Quell’anno ci fu il delitto. Due giovani s’inseguirono in piena festa, si presero a schiaffi e a pugni, litigando si gettarono nella fontana intorno alla quale la gente passeggiava. Poi, uno dei due tirò fuori la pistola dalla giacca e sparò. Per gelosia, per una donna.
«Non c’era orchestrina…» mi ribellai di fronte alla sfrondatura del pezzo e al titolo scelto dal direttore. «C’era solo una cassetta di musica napoletana sparata a mille watt.»
«È più efficace così» obbiettò Fava sorridendo. Fu la mia prima cronaca di un omicidio. (…)
Pippo Fava, da adulto, aveva assunto uno stile sempre più guascone: il volto solcato da profonde rughe, la barba folta, il sorriso acuto e sfottente. Più Cyrano de Bergerac che don Chisciotte de la Mancha. Moralista, orgoglioso e testardo, i suoi affondi letterari erano carichi di aggettivi ma toccavano direttamente l’obiettivo. Non si batteva mai contro «mulini a vento», ma contro potenti in carne e ossa da smascherare con le parole. Faceva nomi e cognomi, senza peli sulla lingua, usando spesso la letteratura e il teatro piuttosto che l’inchiesta giornalistica e le statistiche. Durante i primi vent’anni di carriera, Fava aveva intervistato tutti i personaggi della vita politica, tutti i protagonisti della cronaca in Sicilia. A partire dal 1965 aveva fatto numerosi scoop per il «Tempo Illustrato», settimanale d’inchiesta nel quale si andavano consolidando una generazione di grandi firme del giornalismo e alcuni tra i più originali scrittori italiani dell’epoca, a partire da Pier Paolo Pasolini.
Una foto degli anni Sessanta ritrae un Fava poco meno che quarantenne seduto nel salotto dell’anziano boss mafioso di Mussomeli, Giuseppe Genco Russo, durante un’intervista esclusiva. Quel vecchio boss, mafioso ormai «in pensione» e con la pipa in bocca, gli aveva consegnato un memoriale che iniziava così: «Mi chiamo Giuseppe Genco Russo e sono stato il capo della mafia…». Attraverso la cronaca, Fava aveva imparato a conoscere gli uomini. E ogni suo gesto, anche privato, era una piccola, dolce provocazione nei confronti del contesto.
Lo stivaletto nero, i blue-jeans, il borsello, il giubbotto di pelle comprato a Roma, la sua faccia scavata, le radici della commedia e della tragedia greca sempre presenti nelle sue cronache. L’inquietudine e la curiosità lo spingevano a non accontentarsi mai e a cercare sempre nuovi progetti da realizzare. Era un uomo che conosceva il mondo, ma non smetteva mai di rivendicare la sua identità abbarbicata nella provincia italiana. Fava aveva saccheggiato ogni angolo della cronaca siciliana: «Dietro ogni notizia, miserabile o istituzionale, bella o brutta, c’è sempre la storia di un uomo» diceva. Teorizzava la cronaca come racconto. Alla fine degli anni Settanta aveva iniziato a disegnare i cattivi locali (politici, imprenditori, mafiosi) come tanti Mackie Messer, banditi grotteschi e sfacciati, senza ironia e senza pudore. Mai eroi. Era un uomo pignolo e scanzonato, con le debolezze e le fissazioni di ogni siciliano: i grandi piatti di spaghetti con salsa, basilico, ricotta salata e melanzane, una buona nuotata, la passeggiata sul corso di Taormina. Il sole. Le donne. Il sesso. I sogni realizzati un attimo dopo averli fatti. L’instancabile voglia di raccontare e raccontarsi. La voglia di ridere e di dissacrare i potenti. Aveva la sfrontatezza e l’allegria di un ventenne. Giocava a calcio, preso in giro dagli amici: grande stratega e teorico negli spogliatoi, in campo era un disastro, ma non lo avrebbe mai ammesso. Si appassionava alla competizione sportiva, senza violenza, per misurarsi con gli altri.
Voleva vincere. Non metteva mai in preventivo la sconfitta e, proprio per questo, non era, né sarebbe mai stato, un eroe retorico. Gli piaceva troppo vivere e per questa semplice ragione credo che non avesse mai pensato di poter diventare – un giorno – lui stesso un simbolo o un eroe: è solo che non immaginava di vivere e fare il suo mestiere di cronista in un modo diverso. Aveva paura di invecchiare e amava troppo la vita, anche le piccole debolezze che te la fanno goderee alle quali non avrebbe mai rinunciato.
Negli anni Sessanta e in quelli del movimento sessantottino era stato la penna più brillante e irriverente dei paludati giornali ufficiali di Catania, «la Sicilia» e «Espresso sera», che i gruppi della contestazione studentesca definivano con sommo disprezzo «fogli scelbiani». All’inizio degli anni Ottanta e alla fine della sua evoluzione professionale, Fava diventò il punto di riferimento per un irriguardoso gruppetto di cronisti ventenni, e dunque senza esperienza. A tutti, confessando il suo irrequieto bisogno di novità, diceva: «I miei amici ora sono loro». Parlava con orgoglio. E si ribellava così alla colpevole immobilità della sua città, al modo di essere di colleghi e amici suoi coetanei. In fondo, continuava a essere il ragazzo battagliero e ottimista che più di trent’anni prima aveva iniziato a stupirsi, raccontando il mondo visto da Catania.
di Antonio Roccuzzo
da Il Fatto Quotidiano del 3 maggio 2011