I bambini corrono sempre. Me ne sto chiuso in casa a lavorare con la primavera che preme sui vetri e dalla finestra guardo mio figlio Giovanni. Corre quando mia moglie lo chiama. Corre quando arriva il postino. Corre quando va a prendere la palla. Corre anche se non ha niente da fare e nessuno cui andare incontro. Corre, corre sempre. E mentre lo guardo mi immagino il suo cuore, piccolo e veloce, sotto la maglietta che gli stringe il torace più grande ogni giorno che passa.
Starei ore a guardare i bambini che corrono, a immaginare il sangue fresco che gli scorre dentro e si perde in mille vene e capillari. Tante volte mi sono chiesto perché corrano sempre. A volte penso che sia per stare dietro al loro cuore che batte troppo svelto. Oppure perché con quei muscoli freschi ed elastici come molle non possono fare diversamente. Chissà… magari è così.
O forse è qualcosa di molto più profondo. I bambini corrono incontro alla vita, in ogni cosa che hanno davanti vedono la vita. Tutta intera. Si avventano su per le scale, tre scalini per volta soltanto per arrivare in cima, punto e basta, non importa che cosa troveranno.
Mi viene in mente una poesia di Giorgio Caproni (se non lo conoscete ve lo consiglio).
Vento di prima estate
A quest’ora il sangue
del giorno infiamma ancora
la gota del prato,
e se si sono spente
le risse e le sassaiole
chiassose, nel vento è vivo
un fiato di bocche accaldate
di bimbi, dopo sfrenate
rincorse.
Ecco… le corse sfrenate, senza senso, senza meta. Quando ti senti dentro la vita e ti muovi per starle dietro. Le corri in mezzo, come avvolto dal vento. Sei tu che fai il vento mentre ti lanci giù per il prato.
Corrono i bambini. Corrono anche i ragazzi. Poi un giorno senza un motivo apparente rallenti il passo. No, non è il fiatone (non solo), semmai è una fatica più profonda. Se corri, è perché hai la pancia o il colesterolo alto. Insomma, c’è sempre un motivo. Devi metterti una tuta, una divisa da corridore come per giustificarti.
Me ne sono accorto un giorno nel Tribunale di Milano. Salivo le scale per andare a lavorare e all’improvviso ho notato che non correvo più. Ero solo nel grande atrio del palazzo e sentivo l’eco dei miei passi lenti. Allora ho provato ad accelerare, due, tre gradini per volta. Ma dopo una rampa mi sono fermato. Mi sentivo stupido. Correvo perché avevo fretta. E basta.
Adesso guardo Giovanni in giardino. E provo invidia, per quanto un padre possa invidiare un figlio. Vorrei poter correre (vivere?) come lui e i suoi amici. Senza una ragione che mi spinga. Senza preoccuparmi di che cosa mi troverò davanti.