C’era qualcosa di sinistro nella cerimonia di beatificazione di Giovanni Paolo II. Qualcosa di disumano, il culto dei morti, la santificazione della reliquia.
Faceva pensare a un sacrificio azteco l’ampolla con il sangue di Karol Wojtyla nelle mani della suora che sembrava portasse una bomba a orologeria e Benedetto XVI che la baciava con passione. Il bacio, un gesto d’amore umano rivolto a un oggetto, a un simulacro.
Eppure il miracolo c’è, lo assicura la Congregazione delle Cause dei Santi, che con le sue contorte regole se la dice e se la ride. Come quei bambini che si inventato giochi farraginosi dove vincono sempre loro. I miracoli sono tanti, ma oggi ne basta uno per diventare santi. Purché si rispettino i sette criteri di papa Prospero Lambertini. Mica sei. Secondo la definizione, il miracolo è un’«interruzione della legge naturale».
Come la radio, gli occhiali da vista, l’automobile, le scarpe. Fra i vari miracoli ammessi per accedere alla canonizzazione, c’è anche quello di essere contemporaneamente in due posti diversi. Da bambino, quando mia nonna era stanca di avermi attorno e di patire il mio giocoso chiasso, mi diceva: «Va a vedere se sono in piazza». Mai riuscito a coglierla in flagrante miracolo.
Però arrivando con la bicicletta nella piazza vuota, capivo il suo prodigioso spirito. Ma se passa il miracolo dell’ubiquità, presto la Congregazione delle Cause dei Santi dovrà far fronte a un’ondata di canonizzazioni. Tutti gli italiani che il Primo Maggio sono stati costretti ad andare a lavorare meritano certamente la santità.
Perché col corpo erano in bottega o in fabbrica ma col cuore erano in piazza. Non la piazza cupa dell’adorazione dei morti, ma quell’altra, che celebra la vita e che il Primo Maggio festeggia il fondamento della nostra Costituzione e del nostro stare insieme di uomini.