L’associazionismo ambientalista è in crisi. Questo è un dato di fatto. Chiudono le sedi, chiudono i circoli, latitano gli iscritti. Ma esiste un risvolto della medaglia che fa sì che non si debba piangere troppo su questo dato di fatto. L’associazionismo ambientalista è ed è per lo più stato un associazionismo di delega, non neghiamolo. Il cittadino si iscrive alla associazione affinché l’associazione porti avanti quella data battaglia, quella data istanza. In fondo, se vogliamo, può essere anche una sorta di lavaggio della coscienza. Quasi che essere iscritti a WWF o Legambiente autorizzi poi a condurre una vita che di ambientalmente compatibile magari ha ben poco.
Il risvolto della medaglia consiste proprio nel fatto che molte persone, sempre più persone si impegnano in proprio, sia nelle battaglie ambientaliste (quanti comitati sono sorti in questi anni contro inceneritori, autostrade, TAV?), sia nel cambiare il proprio stile di vita. E qui si va da coloro che abbandonano la città per fondare comunità autogestite, oppure recuperano vecchi borghi abbandonati in montagna, oppure ancora fanno downshifting, a coloro che in città rimangono ma cambiano a poco a poco il proprio stile di vita. Si va da chi coltiva l’orto urbano o si fa l’orto verticale sul balcone, a chi acquista nei negozi leggeri (senza involucri di sorta), a chi collabora alle banche del tempo, a chi fonda o si associa ai gruppi di acquisto solidale, a chi compra solo o preferibilmente prodotti a chilometri zero, a chi acquista detersivi bio, a chi si mette i pannelli solari per avere l’acqua calda, a chi non scalda la camera da letto d’inverno, a chi gira in bici, oppure aderisce al car pooling.
Sono queste pratiche del tipo “la rivoluzione comincia da noi” che testimoniano in modo concreto un lento ma deciso e speriamo irreversibile aumento della sensibilità ambientale nelle persone.