Cinema

Cannes è il Festival dei soliti noti

Da Almodovar a Von Trier sembra una sfilata di reduci. Dove sono gli esordienti?

di RQuotidiano
Juliette Binoche al Festival di Cannes 2010

di Gianni Canova

COME REDUCI. Combattenti e reduci. Ogni anno a maggio, per una decina di giorni, si ritrovano a Cannes e celebrano sotto il sole della Costa Azzurra la loro consueta convention annuale. I nomi degli invitati e dei convenuti sono più o meno sempre gli stessi e si ripetono di anno in anno con rassicurante continuità. Basta scorrere l’elenco di quelli che di volta in volta vengono “selezionati” per la “competizione ufficiale”: il più delle volte è un défilé dei “soliti noti”. Se non, addirittura, una festa di coscritti. Tra gli ammessi al club, se uno ha un film pronto te lo ritrovi puntualmente in concorso. Senza eccezioni. Senza imprevisti. Senza interruzioni. Basta scorrere la selezione di quest’anno. In rigoroso ordine alfabetico: Pedro Almodóvar, i fratelli Dardenne, Aki Kaurismäki, Lars Von Trier. E via compitando. Ogni loro film, da anni, passa puntualmente in concorso sulla Croisette. Se uno di loro per caso non ha un film pronto, il Festival lo invita in Giuria. O gli inventa una lezione di cinema. Una convention che si rispetti non può dimenticare nessuno. Deve trovare per tutti gli adepti uno specifico momento di visibilità. Il problema è come entrare a far parte degli adepti.

I debuttanti, se ci sono, li devi cercare con il lanternino. Gli esordienti – non come registi, ma come membri degni di “apparire” a Cannes – sono una rarità. Si veda anche solo la selezione dell’edizione 2011, in programma dall’11 al 22 maggio: quasi tutti sono già stati in concorso nelle edizioni precedenti. O hanno vinto edizioni precedenti. Anche nomi poco noti al grande pubblico sono in realtà ben conosciuti agli addetti ai lavori. La giapponese Naomi Kawase aveva già vinto il Gran Premio della Giuria nel 2007, il turco Nuri Bilge Ceylan si era aggiudicato il Gran premio della Giuria nel 2002 con Uzak, la scozzese Lynne Ramsay aveva vinto il premio della Giuria con il suo cortometraggio d’esordio. Per la Francia, per dire, concorrono Pater di Alain Cavalier (che era già stato in concorso due volte, con Thérèse e con Libera me, e presente svariate altre volte in sezioni parallele), L’Apollonide di Bertrand Bonello (già in concorso nel 2003 con Tiresia, ma presente ancora anche nel 2008 alla Quinzaine des réalisateurs) e Polisse di Maïwenn Le Besco (che debutta in concorso, ma ci arriva già carica di premi e riconoscimenti importanti per i film precedenti). Un analogo ragionamento vale per l’Italia, presente in concorso con due aficionados come Nanni Moretti e Paolo Sorrentino, entrambi “adottati” da anni e presenti puntualmente con ogni loro nuovo film.

Il sospetto che nel meccanismo ci sia qualcosa che non va è forte e – crediamo – non solo legittimo ma anche doveroso. Perché delle due, l’una: o non c’è in giro nessun altro meritevole di essere selezionato per il Festival, per cui gli organizzatori sono costretti a ripiegare sui soliti nomi che garantiscono comunque uno standard accettabile e garantito di qualità (nel qual caso forse bisognerebbe prendere atto che il cinema è un’invenzione senza futuro, e chiedersi se non sia il caso di chiudere bottega), oppure i nuovi talenti ci sono, eccome, ma è la formula obsoleta del Festival che fatica a individuarli ed è riottosa all’idea di promuoverli e di rappresentarli. Quest’ultima ipotesi non è così peregrina come potrebbe sembrare a prima vista: il Festival di Cannes è nato nel 1946, nel clima storico-culturale dell’immediato dopoguerra, e appare ancora oggi come un tipico “artefatto” novecentesco. In questi 64 anni è cambiato il mondo, il cinema si è trasformato, il pubblico è stato sostituito dai pubblici, Internet e la rete hanno imposto nuovi modi di distribuzione fruizione e consumo dei film, eppure Cannes – ma un discorso analogo, forse ancor più grave, vale anche per Venezia – continua a riproporre la forma e la struttura delle sue origini, come se il mondo e il cinema fossero rimasti quello che erano nel ‘900.

A cosa servono oggi i festival del cinema? A correggere le strozzature e le pigrizie del mercato, promuovendo film e cineasti che senza la spinta di una prestigiosa manifestazione internazionale faticherebbero a imporsi all’attenzione del pubblico? Non proprio: lo scorso anno la Palma d’Oro a un cineasta coraggioso e interessante come il thailandese Apichatpong Weerasethakul non ha giovato più di tanto all’affermazione del suo film (Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti) sul mercato. D’altro canto, nell’era di Internet e dei social network, i meccanismi di creazione del culto cinefilo passano per dinamiche immateriali molto più leggere di quelle previste dalla ormai insostenibile “pesantezza” dei festival. Che sempre più si configurano come pellegrinaggi laici verso i santuari dello spettacolo: là dove un tempo si sono avute apparizioni e visioni e guarigioni, e dove si spera che il miracolo si possa ripetere. Uno come Terrence Malick, l’autore di L’albero della vita, arriva quest’anno a Cannes già avvolto in un’aura di culto che il Festival non potrà che ribadire e ritualizzare: magari con la cerimonia della “montée” sul red carpet, tra ali di folla curiosa che assiste all’ascensione dei divi verso l’olimpo del Grand Palais, mentre il rimmel delle signore si scioglie irrefrenabilmente sotto il sole del meriggio della Costa Azzurra. Così, di anno in anno, il rito si ripete. Alla ricerca di qualcosa che possa scandalizzare. Di un’immagine che sappia scuotere, irritare, indignare. Di un pretesto che dia qualche spunto per ricamare un po’di gossip sui grandi media internazionali. Perché dei film non importa quasi più nulla a nessuno. Cannes promuove soprattutto se stesso: il contenitore, non il contenuto. Come in ogni convention, in fondo, non conta chi partecipa. Conta solo il fatto che il rito si ripeta. Nella sua totale e ormai compiuta autoreferenzialità, anche Cannes – come Venezia – è ormai una macchina celibe. Non produce null’altro che se stessa. Non ha altro senso che quello di perpetuarsi. Ma già il chiedersi se ciò abbia ancora senso rischia di far apparire la domanda a sua volta terribilmente novecentesca e malinconicamente ma irrimediabilmente obsoleta.

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