L’amore vince sempre sull’invidia e sull’odio, dice Barbara Berlusconi a tutta Italia. Primo anno da dirigente (diciamo primi tre mesi) del Milan, primo scudetto dopo sette anni di digiuno. Questa foto è la campagna più efficace di queste elezioni amministrative. Peccato che con la politica, almeno nell’accezione più diffusa del termine, non abbia nulla a che fare.
Per questo motivo il primo sentimento con cui mi trovo ad analizzare questo scatto, questa storia, è la frustrazione. È difficile competere con una tale potenza di fuoco, con una tale capacità di generare simboli, miti, immaginari. Non è impossibile, affatto, basta lavorare tanto e bene e svelare quanto poco ci sia dietro il ricorso alla costante distrazione, al mescolamento di piani concettuali ed emotivi confusi con cinismo e sapienza. Ma è anche giusto riconoscere la capacità di chi maneggia questo genere di materiale pericoloso.
Questa foto riassume, da sola, l’anomalia italiana. È la prova che la par condicio non esiste e che nessuna legge che non sia una rigidissima regolamentazione sul conflitto di interessi potrà garantirla. Fino ad allora, Berlusconi potrà tranquillamente disporre di diverse fabbriche dei simboli e dunque dominerà la scena della comunicazione politica.
Potrà far parlare “il club più titolato del mondo”, ossia lo scudettato Milan, che illustra la sua forza globale già dalla divisa sociale su cui campeggia quella scritta, ma lo fa in lingua italiana, dunque ad uso e consumo esclusivo della nostra opinione pubblica. Potrà definire l’agenda setting della politica e dell’intrattenimento – sì, può scegliere anche come dobbiamo divertirci, questo è assai più decisivo per le nostre vite della presenza o dell’assenza di Santoro, Travaglio e Luttazzi – attraverso la televisione. Può sistemare i figli nei posti di comando delle aziende di famiglia ottenendo, contemporaneamente, due risultati: da un lato simula la sua distanza dal potere, dall’altro permette a ognuno di loro di costruire la propria narrazione personale, sempre di successo, sempre con quel cognome. E così Piersilvio è il dirigente di successo di Mediaset, Marina è il dirigente di successo di Mondadori e Barbara è il dirigente di successo del Milan. I principali testimonial del brand Berlusconi.
E tutto questo è accompagnato dalla beffa finale di una legge sulla par condicio che in Italia esiste per davvero e su cui il premier può appoggiarsi per teorizzare l’esistenza di democrazia e di uguaglianza di accesso alle informazioni.
Berlusconi si moltiplica. E lo fa anche quando è in difficoltà: quando non è capo del governo, presidente del Pdl, presidente del Milan, marito in crisi di Veronica Lario, padre dei suoi figli, organizzatore di cene, imprenditore di lungo corso, è un indagato che ha la possibilità di commentare ogni atto delle sue sentenze. Come ho già avuto modo di scrivere su questo blog, il tribunale è un altro luogo della narrazione berlusconiana, è un’opportunità e non un rischio.
Tutte queste identità sono parlanti, sono tutte portatrici di narrazioni aventi forza propria e interdipendenti. Inutile sperare nella giustizia: nessun atto giudiziario potrà far inceppare questa macchina dei simboli. Questa è una delle chiavi del suo successo, così come la parola “successo”, costante inalienabile delle narrazioni berlusconiane.
Per competere servono altri simboli. Diversi, migliori. Più nuovi. Chiunque sfidi Berlusconi ponendo la sola identità politica come offerta culturale (non fosse altro per esprimere un’alternativa) è destinato a perdere perché la propria biografia, il proprio racconto, è semplicemente meno completo, meno interessante. Chiunque sfidi Berlusconi deve raccontare più storie personali. Non vuol dire che bisogna mandare i propri figli a baciare calciatori famosi o ad attaccare il giornale più letto in Italia, ma che la politica non basta più, quando la politica non è più, e da tempo, ciò che accade in politica.
Nella foto, Barbara Berlusconi e Pato al termine della partita Roma-Milan del 7 maggio 2011.
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