Una prima risposta è arrivata dall’assessore regionale alla Protezione civile Paola Gazzolo, che dopo aver incontrato alcuni dei manifestanti, si è detta disponile a ricevere una lista di nominativi di chi ad oggi è ancora sprovvisto di accoglienza per valutare in tempi brevi la sistemazione in strutture adibite ad ospitarli. Se non a Bologna, almeno in altre città dell’Emilia Romagna. “Provvederemo in pochi giorni a far sì che chi non è ancora inserito nel canale ordinario di accoglienza, perché arrivato sul territorio regionale autonomamente, venga registrato e accolto – ha dichiarato l’assessore – Continuiamo a lavorare, giorno dopo giorno, con il Dipartimento nazionale di Protezione civile e con gli enti locali, per dare risposte adeguate ai nuovi arrivi”.
Intanto però questa sera i migranti torneranno a dormire all’aperto, in attesa che si trovi un posto anche per loro. “Sono stanchi, da molte settimane stanno per strada – spiega Neva Cocchi del Tpo, centro sociale che da tempo ha aperto uno sportello che fornisce assistenza agli stranieri, a cui si sono rivolti anche alcuni dei tunisini rimasti in strada – Quali sono le prospettive di un’accoglienza progettata in questo modo? Che tipo di percorsi di integrazione può sviluppare una persona che dorme in stazione e il cui tempo è tutto impegnato nella sopravvivenza? Che tipo di integrazione hanno in mente alla cabina di regia se ragazzi di 20 anni che cercano qui un futuro vengono trasformati in marginali, in senza fissa dimora che si sfamano alle mense dei poveri?”
Il timore è che l’attivazione dei percorsi per l’inserimento e l’inclusione arrivi troppo tardi: “Se non si interviene subito – continua Neva Cocchi – tutto quello che rimarrà del macchinoso piano coordinato dalla protezione civile non saranno le buone prassi o nuovi concittadini, ma migliaia e migliaia di nuovi clandestini, mentre il business della criminalità e dello sfruttamento lavorativo si sta già sfregando le mani”.
Ma oggi a farsi sentire sono stati gli stessi migranti. Molti di loro provengono da Lampedusa, conoscono poche parole d’italiano, e hanno intenzione di restare a lavorare nel nostro Paese. “Chiediamo diritti e dignità. Vogliamo integrarci, non vogliamo tornare in Tunisia” sono le parole scritte sui cartelli e gridate al megafono dai manifestanti.