La rivoluzione ecologica inizia anche e forse soprattutto dal linguaggio, inteso questo sia nella decifrazione, nella decodificazione dei termini usati dal sistema (perdonatemi la parola “sistema” che denuncia le mie origini movimentiste), sia nel chiamare le cose col loro vero nome. Il sistema infatti è maestro nell’usare belle parole per paludare le peggiori nefandezze. Guardate solo i costruttori edili. C’era un parco, vi erigono un condominio e come lo chiamano? “Il Parco”. C’era uno stagno dove si posavano le gru, vi realizzano un ipermercato e come lo chiamano? “Le Gru”.
Prendiamo la locuzione “sviluppo sostenibile”. Da quando il sistema se l’è inventata, il degrado dell’orbe terracqueo ha subito una decisa accelerazione. E’ lo sviluppo, cari miei, che di sostenibile non ha avuto, non ha, non avrà mai nulla. Oppure, partendo dall’assunto che i termovalorizzatori non valorizzano alcunché, e che i rifiuti innanzitutto non bisogna produrli e se li si produce li si ricicla e stop, chiamiamoli “inceneritori”, come già si faceva molto più onestamente un tempo. Oppure ancora una valorizzazione del territorio andrà smascherata per quello che è: in montagna preconizzerà piste da sci o seconde case. Al mare, magari, come sembra capitare, un campo da golf realizzato in una delle isole più aride del Mediterraneo (sic). Una valorizzazione sarà dunque null’altro che una alterazione del territorio.
Qualche tempo fa, un sindaco dell’hinterland torinese denominava “riqualificazione ambientale” una vastissima porzione di terreno agricolo su cui veniva realizzato l’ennesimo centro commerciale. Ragionando allo stesso modo se tutta l’Italia fosse riqualificata, cosa mangeremmo?
Insomma, voglio dire, denunciare l’ipocrisia corrente sarà, io credo, già un bel modo di smarcarsi rispetto a chi, sventuratamente per noi, è al potere.