Nelle settimane degli sbarchi dal nord Africa quello dei Tg sembra un bollettino di guerra, la cronaca di un’invasione barbarica portata avanti con barconi e gommoni. Questa narrazione produce una percezione di disordine (un po’ come accade con la criminalità percepita) che innesca nella popolazione italiana una paura diffusa.
Da tempo la psicologia sociale ha dimostrato quanto la paura sia intimamente connessa con atteggiamenti prettamente conservatori. In uno studio di Oxley e colleghi pubblicato sulla rivista Science nel 2008, gli autori mostravano degli stimoli capaci di provocare un’emozione di paura (ad esempio, un ragno su un volto di una persona spaventata) a soggetti con forti posizioni favorevoli o contrarie alle politiche protettive nei confronti della nazione, della famiglia e delle tradizioni. Gli autori hanno misurato le risposte fisiologiche associate alla quantità di sudorazione o alla frequenza del battito delle palpebre, entrambi intesi come indici della paura. Lo studio dimostrerebbe come gli individui con atteggiamenti favorevoli a politiche militariste e alla pena di morte, e al contempo più sfavorevoli all’immigrazione, ai matrimoni gay o all’aborto presentino le risposte fisiologiche più marcate. Queste risposte sarebbero associate al funzionamento di una parte del nostro cervello, l’amigdala, coinvolta nell’elaborazione di risposte emotive negative.
Altri autori hanno invece indagato le differenze tra orientamenti politici di “destra” e di “sinistra” visualizzando direttamente le risposte cerebrali. Nasce così un settore di ricerca chiamato suggestivamente “Neuropolitica”.
Ne è un esempio lo studio realizzato da Amodio e collaboratori, pubblicato sulla rivista Nature Neuroscience, che dimostrerebbe come un orientamento politico progressista sia altamente correlato a variazioni di indici elettrofisiologici legati al conflitto cognitivo (come il dover scegliere tra due risposte di opposto valore). Gli autori suggeriscono che questa relazione sia collegata a tratti di personalità quali l’apertura mentale o la maggiore tolleranza dell’ambiguità (spesso caratteristiche di un orientamento progressista).
Tuttavia, indipendentemente dalle differenze individuali legate alle personalità dei singoli individui, sembrerebbe che gli atteggiamenti politici possano semplicemente essere modificati dalla situazione, dallo scenario in cui si verificano gli eventi sociali.
In uno studio appena pubblicato su Science, Stapel e Lindenberg dimostrano come un ambiente disordinato favorisca la formazione di stereotipi contro le minoranze (ad esempio neri, musulmani od omosessuali). L’incremento di questi stereotipi sarebbe dovuto ad un maggiore bisogno psicologico di struttura, di ordine. In uno degli esperimenti riportati in questo studio, ai partecipanti venivano mostrate foto di ambienti disordinati, ed essi tendevano ad essere maggiormente d’accordo con affermazioni come “non sopporto situazioni in cui non so cosa aspettarmi”. Tali atteggiamenti hanno ricadute pratiche nei comportamenti. Infatti, gli autori hanno osservato che gli intervistati tendevano a sedersi più lontano da un membro di un altro gruppo etnico (ad esempio, un cittadino di origine africana) se dovevano compilare un questionario all’interno di stazione sporca e disordinata.
Questi studi ci mostrano che i messaggi che riceviamo dai mass-media, quel mix di parole e immagini che ci scorrono nei tg, sono potenzialmente in grado di condizionare gli atteggiamenti di chi li guarda, innescando meccanismi emotivi di cui spesso non si è nemmeno coscienti. Ne consegue l’importanza di un’informazione corretta su fenomeni sociali come l’immigrazione. Sempre che chi dirige certe redazioni abbia interesse a farlo.
di MAELFIVA, collettivo di 4 ricercatori italiani in Neuroscienze sociali