Cronaca

Milano, la truffa dei profughi<br>di Maroni e Moratti

Il 10 maggio il candidato sindaco del centrodestra assicurava che in città non sarebbe arrivato nessun migrante, due giorni dopo ne arrivano 420. Ma il Viminale decide di nasconderli in un paese alle porte della metropoli. Per giunta nella stessa struttura che ospita 660 poliziotti che lavorano nel capoluogo lombardo

“Dei 700 profughi in arrivo in Lombardia, a Milano non è previsto che si fermi nessuno”. Parola di Letizia Moratti che così il 10 maggio tranquillizzava gli elettori milanesi di centrodestra sul rischio dell’arrivo di centinaia di immigrati provenienti da Lampedusa. “La città ha già dato”, diceva il sindaco sottolineando che a farsi carico dell’accoglienza sarebbero state altre amministrazioni locali, di certo non quella milanese.

Passano 48 ore e cosa succede? Con buona pace delle dichiarazioni elettorali della Moratti, il 12 maggio arrivano 420 profughi. Il trucco è che i migranti non sono a Milano, ma sono stati nascosti a meno di cinque chilometri dalla città: a Pieve Emanuele. Un paese dell’hinterland, alle porte dell’ingresso Sud del capoluogo lombardo, nel gigantesco residence Ripamonti, a due passi dal carcere di Opera.

L’aspetto ancora più paradossale della vicenda è che i migranti provenienti dalla Libia sono stati sistemati nella stessa struttura destinata a ospitare 660 agenti di polizia di stanza permanente in città. Una vera e propria caserma dentro il palazzone che ora gli agenti si trovano a dover condividere. “Una scelta davvero infelice. Come è pensabile fare convivere quattrocento profughi negli stessi corridoi di 600 agenti armati? E’ una questione di sicurezza”, sottolinea un agente. “E’ che a Milano si vota. E per la Moratti è meglio che gli immigrati siano invisibili agli occhi dei milanesi”, gli risponde un altro poliziotto.

Insomma, l’importante è rispettare gli impegni presi con i cittadini-elettori. Nella metropoli nessun profugo, ma nell’hinterland, a meno di venti minuti d’autobus dal centro cittadino. E di colpo Pieve Emanuele, 15mila anime guidate da una giunta Pdl-Lega, ha cominciato a somigliare a Lampedusa o a Ventimiglia ai tempi del fuggi-fuggi verso la frontiera francese. Il provvisorio insediamento ha fatto schizzare la percentuale di popolazione straniera della cittadina dal 10 al 12,5 per cento. E alcune fonti di pubblica sicurezza dicono che dall’isola siciliana arriveranno presto altre 400 persone, partite oggi da Lampedusa.

Il residence Ripamonti è una struttura che può arrivare ad ospitare fino a 3mila persone. Nell’ala sinistra c’è la parte occupata dalle forze dell’ordine, con tanto di cartelli con scritto “riservato agli alloggi della polizia di Stato” e di guardione tipo commissariato, nel lato opposto invece vivono i migranti. Peccato che ai piani superiori, dove ci sono i mini-appartamenti, le due zone della struttura siano collegate. E nei corridoi a un certo punto finiscono le stanze degli agenti e cominciano quelle dei migranti. L’unica separazione è una scritta “zona riservata” appesa a due nastri bianchi e rossi. “Viviamo nella completa promiscuità con queste persone – attacca un dirigente della polizia – Non è assolutamente una questione di razzismo, ma il Viminale avrebbe dovuto decidere se privilegiare l’aspetto umanitario o la sicurezza”.

I 420 profughi sono sbarcati a Genova dalle navi Flaminia ed Excelsior il 12 maggio e poi sono stati trasferiti in autobus nel paese della periferia milanese dagli operatori di Croce rossa e Protezione civile. “Siamo partiti da Lampedusa l’8 maggio – racconta Emmanuel, un giovane nigerino – Eravamo in tremila sulla nave, ma molti sono scesi a Napoli e in altri porti più a nord”. Molti degli “ospiti” del residence provengono dai paesi dell’Africa sub-sahariana: in particolare Niger, Nigeria e Ghana, ma ci sono anche bangladesi, pachistani e anche qualche cinese. Sono quasi tutti operai specializzati impiegati nel settore edile o nei gasdotti. “Lavoravamo tutti in Libia con regolare permesso di soggiorno e di lavoro– racconta Dramani, ventiseienne proveniente dal Ghana – ma quando sono iniziati i bombardamenti siamo dovuti fuggire”. Lui di mestiere fa il piastrellista e quando è cominciato l’intervento militare dell’Alleanza si è trovato di fronte alla scelta obbligata di lasciare Tripoli. “Volevo tornare nel mio paese – racconta – Ma solo l’idea di affrontare un’altra volta il deserto mi ha messo i brividi e ho deciso di prendere il mare”.

Davanti all’unica cabina telefonica dello spiazzo davanti al residence c’è la coda. “Stiamo chiamando a casa per dire che siamo arrivati a Milano”, dicono sorridenti. La storia che raccontano è sempre la stessa: “Con l’inizio del conflitto, i generi alimentari hanno iniziato a scarseggiare e i primi a farne le spese siamo stati noi immigrati che in Libia siamo l’ultimo anello della catena sociale”. Alla loro partenza, le forze dell’ordine libiche non hanno opposto nessuna resistenza. “In un’insenatura vicino a Tripoli – continua Dramani – siamo partiti davanti agli occhi dei militari di Gheddafi. Prima mi hanno rubato il telefonino e i pochi soldi che mi erano rimasti, poi mi hanno messo sulla barca”.

La stra-grande maggioranza dei migranti è intenzionata a chiedere lo status di rifugiato o qualche forma di protezione internazionale. “Non posso tornare in Nigeria e ora nemmeno in Libia. Cosa altro posso fare?”, si chiede Oba, anche lui in coda davanti alla cabina del telefono. Dice di essere cattolico e di non vede l’ora di andare a visitare il Duomo di Milano: “Mi hanno detto che la cattedrale è maestosa”. Meglio non avvisare Letizia Moratti dell’imminente visita. Almeno fino a quando le urne della metropoli rimarranno aperte.