Virginio Merola è il nuovo sindaco di Bologna. Dopo 5 anni di “assenza” Cofferati, un anno di Delbono e 13 mesi e mezzo di commissariamento, la città ha un sindaco. “Un’affermazione straordinaria questa al primo turno. Il Paese sta cambiando”, ha detto il presidente della Regione Emilia Romagna Vasco Errani.
Certo è che il candidato del Pd questa vittoria se l’è sudata fino in fondo. Prodi userebbe una metafora ciclistica. Lui, Merola, il funzionario di partito tosto e non sempre brillante, sicuramente non andrebbe a cercare qualcosa che abbia a che fare con una partita di pallone, viste le gaffe collezionate negli ultimi mesi.
“Merola”, dicono i suoi addetti stampa, “è stato a casa tutto il giorno, sta arrivando alla sede elettorale. E’ tranquillo”. Sarà, ma col termometro delle percentuali che è salito e sceso da oggi alle 15 in poi tanto tranquillo non sarà stato. Ha aspettato, anche se davvero gli mancava solo un soffio – o come direbbe Prodi, lo scatto sui pedali prima dell’arrivo – l’ultima scheda. Fino a quel 50,47 per cento che gli permette da subito di entrare a palazzo d’Accursio.
Lui era ancora a casa mentre al comitato elettorale avevano già iniziato a festeggiare. La parola fine su una campagna elettorale noiosa, fatta di livori e insulti. L’unica certezza, fin dalle prime ore del pomeriggio, è arrivata dal Movimento 5 Stelle che incassa qualcosa come quasi il 10 per cento. Un trionfo per tutto il movimento sostenuto da Grillo, ma anche quello personale di Massimo Bugani, che, a differenza degli altri sfidanti, in questi mesi non ha mai alzato il tono della voce. Si è proposto, anche lui ha fatto le sue gaffe, ha inciampato e si è rialzato senza fare troppo rumore. E a sorpresa piazza un 9,46 per cento che sicuramente sarà in grado di far pesare.
Un dato incerto invece quello che ha visto Merola in lotta contro sé stesso per non finire al ballottaggio fino alle 1.30 del mattino. Come in lotta contro sé stesso d’altronde è stato in tutta questa campagna elettorale che poteva perdere soltanto da solo.
L’incubo di Virginio Merola, in queste ore si è chiamato ballottaggio. Ha rischiato fino alla fine il ballottaggio con la Lega, quelli del fora dai ball (Umberto Bossi, 29 aprile, Roma) , quelli che vedono terroni ovunque (Roberto Calderoli, Savoia hotel Bologna, 13 maggio) e quelli che prevedono, in caso di vittoria della sinistra, un sindaco di nome Alì (Giulio Tremonti, domenica 8 maggio, piazza Maggiore). Insomma quelli che alla vigilia erano battibili con facilità, vista la campagna elettorale fatta di offese e poco contenuto.
La percentuale dei votanti è scesa al 72,80 per cento (erano il 76,4 alle passate amministrative) e non la dice buona. Anche perché il non voto – oltre a coloro che non si sono presentati vanno messi in conto le 3561 schede nulle e le 1686 bianche – ha una firma chiara: centrosinistra. Nonostante gli sforzi fatti in campagna elettorale, l’aiuto non più sperato di Romano Prodi arrivato in piazza Maggiore e osannato da diecimila persone, e gli appelli porta a porta perché i bolognesi si riprendessero il loro senso civico che ne ha sempre fatto una razza diversa nella terra dei santi, navigatori e poeti, il numero di chi non ha votato è alto.
Nel pomeriggio di ieri Merola se n’è andato tranquillamente al cinema, ha detto basta ai numeri, l’astensione, le percentuali: “Ora non resta che aspettare, quello che dovevamo lo abbiamo fatto”, ha detto agli amici. Così ha salutato tutti ed è andato al cinema a vedere Red, film con Bruce Willis e Morgan Freeman, la storia di un ex agente della Cia che vive isolato dal resto del mondo, ma a un certo punto dovrà difendersi da un giovane killer iper-tecnolocizzato. Non proprio una pellicola rilassante, visto che lui un killer sulle spalle ce l’aveva, metaforicamente parlando, e porta il nome di Manes Bernardini, il padano dalla faccia pulita che vuole una Bologna ai bolognesi (anche se lui vive in un altro comune, a Casalecchio di Reno, e manco è riuscito a votarsi) e il decentramento del ministero della pubblica istruzione, perché “Bologna è la capitale della cultura” (Bologna, piazza Maggiore domenica 8 maggio).
Bernardini, apparentemente sempre più rilassato di Merola, ieri ha accompagnato la moglie a votare, poi si è dedicato alla famiglia. Il ragazzo voluto dal ministro dell’Interno Roberto Maroni, assecondando l’idea fissa del trota, alias Renzo Bossi, e cioè padanizzare l’Emilia Romagna, sembrava – almeno nel primo pomeriggio – poter arrivare al ballottaggio. Poi le proiezioni lo hanno gelato. Eppure di fattori a suo favore ne aveva: l’effetto Sergio Cofferati, il sindaco-assente, poi Flavio Delbono, il protagonista della love story del decennio a spese pubbliche, e una campagna che il vertice del Carroccio gli ha fatto con tutte le forze a disposizione. Ma non è bastato. Anzi, probabilmente è stata la Lega stessa a danneggiarlo (vedi Tremonti e Calderoli), pur lasciandogli mano libera sul programma, la posizione in merito agli immigrati (“non dico di sparargli come ha fatto Speroni”, Bologna lunedì 2 maggio), l’accoglienza, le politiche per la città. Lo hanno lasciato fare, fino a guadagnarsi, l’avvocato Manes, un posto nell’olimpo – riservato a pochissimi – dei leghisti dalla faccia pulita.