Virginio Merola è il nuovo sindaco di Bologna. A 12 ore dalla chiusura dei seggi è arrivata l’ufficialità: il candidato del centrosinistra, il funzionario di partito su cui in pochi avrebbero scommesso, porta a casa una vittoria risicata, ma al primo turno. Non sarà un trionfo il 50,45 per cento, ma entra a palazzo d’Accursio dalla porta principale. E subito.
Commosso, pallido in volto, si è presentato nella sua sede elettorale solo dopo l’ultima scheda scrutinata. Così aveva detto e così ha fatto. Anche perché l’uomo, da questo punto di vista, è testardo e caparbio. Altrimenti non sarebbe arrivato dove voleva, visto che alle primarie era già stato sconfitto una prima volta – e in maniera netta – da Flavio Delbono due anni fa e, in queste amministrative, non doveva essere lui l’uomo di punta, ma Maurizio Cevenini. E’ diventato un cambio in corsa, ma quando il partito lo ha chiamato lui ha risposto presente nonostante fosse – per usare il gergo calcistico, ci perdoni il nuovo sindaco – un panchinaro. Non era scontato.
Che il vento tirasse a favore di Merola lo si è capito domenica sera, in piazza Maggiore, quando si sono presentate diecimila persone e, sul palco, è arrivato un trafelatissimo Romano Prodi, capace di mettere in ombra anche il segretario del Pd Pierluigi Bersani.
E se Merola ce l’ha fatta sicuramente un grazie lo deve anche al Professore che, nell’ultimo mese, è diventato un inaspettato attivista attivo della campagna elettorale in favore del candidato del Pd: siamo convinti che il suo appello agli indecisi abbia spostato il numero necessario di voti necessari a Merola per passare al primo turno. E Bologna tornasse a essere una delle culle del Pd. Non la Culla, quella con la C maiuscola come lo era stata in passato, ma una tra le molte.
Di due elementi dovrà tenere conto il nuovo sindaco: il Movimento 5 Stelle, quello che si è attestato come il vero Terzo Polo, e i dati sull’astensione. Due conferme, in realtà, ma appunto perché tali non possono essere considerati fenomeni. I ragazzi che fanno riferimento a Beppe Grillo, Massimo Bugani in testa, nonostante gli attacchi degli ultimi giorni (proprio da parte dei vertici del Pd, da Bersani a Errani, dallo stesso Merola a Cevenini) sono un pezzo della politica non solo in Emilia Romagna, ma in buona parte del Paese. E chiunque governi anche con loro deve rapportarsi.
Altro dato è l’astensione. Il numero dei votanti è sceso al 72,80 per cento (erano il 76,4 alle passate amministrative) e non la dice buona. Anche perché il non voto – la percentuale si abbassa ancora e non di poco se si considerano le oltre 3500 schede nulle e le 1500 bianche – ha una firma chiara: centrosinistra. Nonostante gli sforzi fatti gli appelli quasi porta a porta perché i bolognesi si riprendessero il loro senso civico che ne ha sempre fatto una razza diversa nella terra dei santi, navigatori e poeti, il numero di chi non ha votato è alto. E questo deve essere un punto dal quale ripartire.
Sugli sconfitti non è mai giusto infierire. Giusto due parole. Hanno perso perché l’alleanza tra Lega e Pdl traballa da tempo e non sappiamo se saprà riprendersi da questa batosta elettorale. Manes Bernardini ci ha provato fino alla fine, ma aveva un marchio di fabbrica, quello della Lega, che con Bologna non ha niente a che vedere. Lui ci ha provato a giocare al leghista dal volto umano: poi sono arrivati Umberto Bossi, Giulio Tremonti e Roberto Calderoli che, a colpi di frasi a effetto (al limite del razzismo) che infiammano Pontida, ma non piacciono a Bologna, gli hanno definitivamente scavato la fossa.