Io credo che le colpe più gravi degli italiani siano quelle intellettuali e morali. In particolare, su tutte, una: la violenza alla verità. Gli italiani più di tutti gli altri credono di potere “piegare” la verità a piacimento. Siamo il popolo che più di ogni altro è incline al “Cara non è come sembra”. E, con riferimento alle cose più serie, siamo il popolo della “finanza creativa”, dei trucchi di bilancio, della sostanziale depenalizzazione del falso in bilancio, delle sanatorie edilizie e di quelle fiscali.

Da noi, insomma, le cose non sono mai ciò che sono, ma ciò che noi vogliamo, anzi pretendiamo che siano. Da noi mentire non è disonestà morale, vergogna, attentato al bene comune, oltraggio alle intelligenze altrui, ma astuzia, “coraggio”, “decisionismo”, “metterci la faccia”, “virilità”, “potere”. E la sincerità, l’onestà intellettuale e morale sono “moralismo” e “bacchettoneria”. Questo rende difficile, ai limiti dell’oggettiva impossibilità, una vita civile. Perché la vita di una società civile è fatti e idee.

Se i fatti vengono negati spudoratamente e le idee costruite su menzogne palesemente tali, è praticamente impossibile parlare davvero e confrontarsi. Per questo – e me ne scuso con i miei pochi e generosi lettori – da un po’ scrivo poco. Perché è difficile parlare, quando le parole non sono più “pietre” sulle quali costruire, ma sassi tirati per demolire la verità. Il 99% del dibattito pubblico del nostro Paese si avvita ormai non più sui fatti, sui nostri problemi reali, sulle necessità di questo e di quel pezzo di un Paese che va in bancarotta, ma su un racconto totalmente falso che le televisioni di un regime elaborano a reti unificate ventiquattro ore su ventiquattro e che un popolo di sudditi e spettatori/consumatori si bevono passivamente.

Io ho sempre ritenuto gli americani un popolo culturalmente un po’ rozzo e giuridicamente molto rozzo. Ma sono folgorato dalla quantità di vero e di buono che ogni tanto la loro cultura e soprattutto le loro prassi producono. Dalla enorme mole di articoli sulla vicenda di Dominique Strauss-Kahn mi hanno folgorato poche battute:

– l’udienza per la convalida dell’arresto è durata otto minuti, otto; un solo giudice (non una Corte di cinque o sei, ma un solo giudice, del quale nessun giornale si sogna di raccontare per chi vota e di che colore ha le calze) ha consentito a due avvocati fra i più pagati del mondo di difendere uno degli indagati più potenti del mondo dicendo pochissime cose (quelle – le uniche pertinenti – che si possono dire in cinque minuti); il di più sarebbe stato ritenuto oltraggio alla Corte;

– la decisione del giudice è stata pronunciata dopo che l’indagato ha «atteso il suo turno come un criminale comune, seduto su una panchina e guardato a vista da un poliziotto»; ha atteso il suo turno, non gli hanno fatto un turno apposta né un’udienza apposta;

– nonostante abbia offerto una cauzione di un milione di dollari, il giudice ha detto che deve restare in galera, non “ai domiciliari”, “in galera”, perché – semplicemente e banalmente – ci sono gravi indizi che abbia davvero commesso il reato per cui è accusato ed è plausibile che tenti di sottrarsi alla pena.

Punto.

E basta.

Anche l’America ha tante malattie, ma evidentemente si è data dei limiti su quelle che è disposta a tollerare.

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