Una storia inedita, raccontata dal collaboratore oggi al processo al generale dei Carabinieri e al colonnello Mauro Obinu per favoreggiamento a Cosa Nostra. Insieme a lui, Giovanni Brusca, che ha riferito del presunto ruolo dell'ex ministro Mancino e del premier Berlusconi nella trattativa tra Stato e mafia
“Berlusconi può essere accusato di tutto, ma con le stragi del ’92-’93 non c’entra niente”. Questo uno dei primi passaggi della deposizione del collaboratore di giustizia Giovanni Brusca al processo al generale dei Carabinieri, Mario Mori, e al colonnello Mauro Obinu. I due sono accusati di favoreggiamento alla mafia per la mancata cattura del boss Bernardo Provenzano nell’ottobre del 1995. Insieme al boss, davanti ai giudici di Palermo in trasferta a Roma, nell’aula bunker di Rebibbia è comparso anche un altro pentito, Angelo Siino. Il “ministro ai lavori pubblici di Cosa Nostra”, com’è soprannominato Siino, ha anche rivelato per la prima volta in pubblico di un mancato arresto di Bernardo Provenzano, tra il ’94 e il ’95, sfumato per l’emozione di un ufficiale dei Carabinieri che non reagì con prontezza. Al centro delle loro testimonianze resta comunque la presunta trattativa tra Stato e mafia, di cui aveva parlato nella scorsa udienza il figlio dell’ex sindaco di Palermo, Massimo Ciancimino. Brusca è stato tra i primi collaboratori a parlare del ‘papello’ con le richieste della criminalità organizzata allo Stato e a indicare l’ex ministro dell’Interno, Nicola Mancino, come referente. Che ha sempre risposto: “La sua è una vendetta per gli arresti”.
Ancora inedita la storia raccontata da Siino, ascoltato nel pomeriggio. Era il ’94-’95 e il boss non si era ancora pentito. Da confidente, però, decise di portare gli agenti nei luoghi ad Aspra di solito frequentati da Provenzano e Brusca. “Quello è Provenzano!”, urlò Siino, indicando una Mercedes blindata su cui viaggiavano il boss latitante e un altro mafioso, Carlo Guttadauro. Ma il colonnello Meli, racconta Siino, anche lui in macchina con il confidente, “per la sorpresa non riuscì a fare inversione e perse l’auto”. Dopo il suo arresto, Siino racconta di essere stato più volte contattato dal generale Mario Mori e dall’allora capitano Giuseppe De Donno, che volevano convincerlo a pentirsi. In un primo momento il boss avrebbe deciso di fare solo delle confidenze ma, racconta oggi, aveva l’impressione che le sue indicazioni non venissero seguite dai Carabinieri. “Io mi meravigliavo – ha detto – perché nonostante le mie dritte non facevano nulla”.
L’audizione di Brusca è invece cominciata stamattina intorno alle 10. I primi passaggi si sono concentrati sul possibile ruolo del presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi – allora iniziatore di un nuovo soggetto politico, Forza Italia – nella seconda trattativa. “Dopo l’arresto di Riina ho contattato Vittorio Mangano, il cosiddetto stalliere di Arcore – racconta Brusca – perché si facesse portavoce di alcune nostre richieste presso Dell’Utri e Berlusconi”. Mangano, nel racconto del collaboratore, si era detto “contentissimo” di poter dare una mano. Nonostante si fosse “licenziato per non creare problemi a Berlusconi”, il distacco – nel racconto riferito da Brusca – “era stato concordato anche con Confalonieri” e quindi Mangano “aveva ancora con loro buoni rapporti”. Tra le richieste, formulate alla fine del ’93, c’era tra l’altro un miglioramento del trattamento degli uomini delle cosche detenuti a Pianosa e all’Asinara. Sul piatto, Brusca racconta di aver offerto a Dell’Utri, tramite Mangano, una “arma politica”: la presunta conoscenza della sinistra di tutto quello che riguardava le stragi mafiose del ’92 e del ’93. Dopo un mese – prima di essere arrestato e interrompere i contatti – l’ex stalliere ha riferito la risposta del senatore: “Vediamo cosa si può fare”.
Nel racconto di Brusca, quello non era il primo contatto del premier con Cosa Nostra. “Negli anni ’80 – racconta il collaboratore – la mafia legata a Stefano Bontate, quella dei cosiddetti perdenti, investì denaro con Dell’Utri e Berlusconi”. L’allora imprenditore pagava poi un pizzo di 600 milioni di lire al mese per le sue attività in Sicilia. Lo riferisce sempre Brusca, raccontando di averlo appreso da Ignazio Pullarà: sarebbe stato proprio il capo mafia a occuparsene, compiendo anche un attentato nella casa milanese del premier per convincerlo a pagare lui, dopo la morte di Bontate. Intimidazione che non sarebbe piaciuta a Totò Riina, che sollevò Pullarà per occuparsi personalmente degli affari con Berlusconi.
Riguardo alla prima trattativa, iniziata tra la strage di Capaci e quella di via d’Amelio, Brusca ha poi confermato di aver saputo da Totò Riina che “il soggetto interessato a far cessare le stragi, il garante presso Cosa nostra” era l’ex ministro dell’Interno, Nicola Mancino. Nel racconto del collaboratore, in preda all’insoddisfazione per l’esito della trattativa, il boss Leoluca Bagarella avrebbe anche pensato a un attentato. “Si lamentava di essere stato preso in giro da Mancino – spiega Brusca -, ‘Gliela faccio vedere io’, disse con l’evidente intento di ucciderlo”. “Brusca, che da tempo ho denunciato, è un pentito itinerante tra i vari uffici giudiziari – risponde asciutto Mancino -. Ripete per vendetta falsità nei confronti di un ex ministro dell’Interno che nel periodo 1992 -’93 fece registrare, tra i tanti arresti di latitanti, anche quello di Riina. Non desidero dire altro”.