Lo tsunami che ha devastato la centrale nucleare ha gettato il paese nella crisi economica. A tal punto che ormai il dramma atomico e finito in fondo ai palinsesti televisivi.
La zavorra principale è senza dubbio l’effetto del terremoto e dello tsunami, con un conto da 300 miliardi di dollari di danni diretti e indiretti. Ne hanno fatto le spese colossi come Toyota, che appena pochi giorni fa ha annunciato che i profitti sono stati dimezzati a causa dei danni riportati dagli stabilimenti industriali. Le cattive notizie non si fermano qui. Il governo nipponico, infatti, ha annunciato venerdì scorso un pacchetto da 60 miliardi di dollari per aiutare Tepco, l’azienda che gestisce la centrale atomica di Fukushima, a fronteggiare la prevedibile pioggia di richieste di risarcimento danni. L’annuncio però ha avuto l’effetto di trascinare al ribasso sulla Borsa di Tokyo le azioni della Tepco (-6 per cento) e quelle dei principali istituti di credito giapponesi, che potrebbero essere coinvolti nella gestione di questo pacchetto di aiuti straordinari. Il governo nipponico si è affrettato a spiegare che non si tratta di un «bail out», di un salvataggio finanziario di Tepco dalla bancarotta, ma di un modo per condividere le responsabilità per la gestione della crisi nucleare. Oltre a quello di Fukushima, Tepco gestisce impianti energetici per un’area che pesa per circa un terzo del Pil giapponese e un suo eventuale fallimento per ragioni finanziarie sarebbe un ulteriore colpo per un’economia che ha faticato a uscire dalla recessione del 2008-2009.
I dati disagreggati sull’andamento dell’economia giapponese, peraltro, dicono che non è soltanto questione di danni diretti causati dallo tsunami. In quel 0,9 per cento di contrazione, c’è uno 0,6 per cento di riduzione del consumo privato (che complessivamente pesa per il 60 per cento del Pil nipponico). Un segnale, in continuità con la fine del 2010, che indica scarsa fiducia nel futuro e attesa di nuove difficoltà economiche, per un popolo che ha già una delle più alte propensioni al risparmio del mondo.
Il resto della riduzione del Pil viene spiegato dalla diminuzione delle esportazioni, a causa della minore produzione e dei danni subiti dalle infrastrutture della zona colpita dallo tsunami, e dall’aumento del costo delle importazioni per i più alti prezzi delle materie prime sul mercato internazionale. L’avanzo della bilancia commerciale giapponese infatti si è ridotto di oltre un terzo (34,3 per cento) nei primi tre mesi del 2011 rispetto allo stesso periodo del 2010.
Per cercare di trovare una soluzione, la Banca centrale giapponese ha convocato due giorni di riunione, giovedì e venerdì. “Il Giappone sta perdendo gradualmente la sua forza economica”, aveva detto martedì scorso Masaaki Shirawaka, governatore della Banca centrale, davanti ai parlamentari, con la consapevolezza che la Banca del Giappone aveva già fatto grosse iniezioni di liquidità nel sistema economico per tirare fuori il paese dalla crisi finanziaria ed economica esplosa alla metà del 2008 e durata fino a tutto il 2009. Il 2010 era stato l’anno della ripresa, ma il terremoto e lo tsunami di marzo hanno gelato ogni entusiasmo. In una situazione del genere, peraltro, la Banca centrale giapponese non ha molti margini di manovra: il costo del denaro è già compreso tra 0 e 0,1 per cento, il livello più basso tra i paesi industrializzati, e un aumento dei tassi di interesse non avrebbe altro effetto che deprimere ulteriormente consumi e propensione alla spesa, soprattutto per i beni durevoli. La contrazione, secondo le previsioni (non molto puntuali finora) degli analisti economici, dovrebbe durare anche per tutto il secondo trimestre dell’anno in corso. Il segno positivo potrebbe tornare solo a partire da luglio.
Joseph Zarlingo