Vittorio Sgarbi
Malato immaginario, truffatore vero
Vittorio Sgarbi, critico d’arte, anchorman televisivo, ex deputato di Forza Italia, già presidente della commissione Cultura, e attuale sindaco di Salemi, è un truffatore dello Stato. Per tre anni ha disertato il suo ufficio alla Soprintendenza di Venezia con scuse puerili, dalle malattie piú improbabili a una fantomatica “allergia al matrimonio”, per farsi gli affari suoi: scrivere libri, comparire in tv, frequentare salotti e varie mondanità. Cosí, dal 1996, è un pregiudicato per truffa aggravata e continuata e falso ai danni dello Stato, avendo riportato una condanna definitiva a 6 mesi e 10 giorni di reclusione e 700 mila lire di multa.
Il processo di primo grado s’è celebrato nella primavera-estate 1994 davanti al pretore Antonino Abrami di Venezia, mentre il deputato-imputato veniva felicemente promosso dal Polo presidente della commissione Cultura. Ecco le accuse contenute nel capo d’imputazione a carico di Sgarbi, processato in condominio col suo compaesano e medico di fiducia Andrea Zamboni:
1) Truffa: “previo accordo e in concorso tra loro, con piú azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, con l’artificio e il raggiro consistente nel presentare lo Sgarbi, onde ottenere aspettative “per motivi di famiglia” – motivi peraltro non precisati nelle istanze –, certificazioni mediche redatte dallo Zamboni attestanti inesistenti malattie dello Sgarbi e che supportavano implicitamente la richiesta di aspettativa, cosí inducevano in errore i funzionari del ministero dei Beni culturali e ambientali di cui lo Sgarbi era dipendente presso la Soprintendenza per i Beni artistici e storici del Veneto, conseguendo in tal modo lo Sgarbi illecitamente il vantaggio della conservazione del posto di lavoro, con correlativo danno per lo Stato, costringendo l’Amministrazione a oneri altrimenti non sostenuti, in particolare al pagamento di oneri assistenziali per l’assicurazione contro le malattie a favore dello Sgarbi stesso, sempre con pari danno per lo Stato”.
2) Falso: “previo accordo e in concorso tra loro, lo Sgarbi agendo quale istigatore e lo Zamboni quale autore materiale, confezionavano certificati medici attestanti malattie inesistenti dello Sgarbi. al fine di perpetrare il reato sub a)”.
La vicenda è talmente grottesca che, se non si trattasse di Sgarbi, si stenterebbe a credere che sia davvero accaduta.
Nel 1977 un giovanotto appena laureato, Vittorio Sgarbi da Ro Ferrarese, classe 1952, viene nominato “ispettore in prova nel ruolo dello storico dell’arte nella carriera direttiva della Soprintendenza alle Belle arti, assegnato a prestare servizio presso la Soprintendenza per i Beni artistici e storici del Veneto”. La sua zona di competenza è la provincia di Vicenza. Il suo lavoro – spiega al processo la soprintendente Filippa Alberti Gaudioso – “consisteva in sopralluoghi nel territorio […], constatazione e verifica dello stato di conservazione delle opere d’arte […], segnalazione sempre per interventi di tutela e di restauro, proposte di notifica nel caso ritrovasse opere d’arte di eccezionale interesse storico-artistico di proprietà privata”. In piú faceva parte della Commissione tecnica scientifica dell’Ufficio esportazione di Verona.
“Sono malato, ho il cimurro”
“Accanto al lavoro sul territorio – ricorda il pretore – l’altra metà della settimana lavorativa si svolgeva in ufficio”. O meglio, avrebbe dovuto svolgersi in ufficio, visto che Sgarbi non vi mise quasi mai piede. Le sue “indubbie soggettive qualità non hanno purtroppo trovato un oggettivo, positivo riscontro nel rapporto di pubblico impiego, non essendosi venuto a instaurare un corretto rapporto tra il citato dipendente e la Pubblica amministrazione, cosí cioè come previsto dalla norma”. Sgarbi manifestava – come denuncia il viceprocuratore generale della Corte dei conti – “una forma di insofferenza alle regole dell’ufficio, agli ordini di servizio, all’orario, ecc.”. La Gaudioso conferma sconsolata: Sgarbi “non era puntuale, anzi era in ritardo continuato”; e quando lei lo censurava con i dovuti richiami scritti, Sgarbi rispondeva alla sua maniera: “giungeva persino a motivare con fare irridente i suoi ritardi, affermando di avere malattie come il cimurro – propria del cane, come è noto – o malattia similare”. La sentenza parla di “condotta certamente censurabile”, con ogni sorta di “violazioni delle norme di condotta: continui ritardi, presenza sporadica in ufficio di solo tre giorni in diversi anni, utilizzando uno dei quali per inoltrare altra domanda per assentarsi ancora; irridente richiamo a malattie proprie del cane per giustificare ritardi causati da inesistenti raffreddori”.
E questo è niente. Un giorno – racconta in aula la soprintendente – Sgarbi doveva stilare “una perizia sul restauro del teatro di Schio”. Ma evidentemente aveva altro da fare. Cosí “non si è occupato minimamente di stendere la perizia: ha lasciato che l’assistente utilizzasse una precedente perizia, travasandola praticamente in quello che doveva essere un nuovo documento storico-artistico e anche di spesa”. In pratica, Vittorio il truffatore ricicla un vecchio lavoro che non c’entra nulla con l’incarico ricevuto. Roba da licenziamento, o da trasferimento. Infatti quella – spiega la soprintendente – “fu un po’ la goccia che fece traboccare il vaso, per cui scrissi al Ministero perché lo Sgarbi fosse allontanato”. Ma il simpatico imbroglione ha qualche santo al ministero. Infatti, invece del licenziamento, il 21 gennaio 1985 ottiene un altro incarico di tutto comodo: “catalogare i beni presso l’Amministrazione provinciale di Rovigo, a seguito di sua domanda”. Il tutto – secondo il pm della Corte dei conti – grazie a “una certa accondiscendenza da parte del ministero”. Il governo ha risposto alla soprintendente di non poter trasferire Sgarbi per il fattaccio di Schio, perché “manca la documentazione allegata a detta richiesta”. Invece la documentazione c’era eccome. E questo – scrive il giudice – “costituisce una notitia criminis a carico del ministero, che impone a questo Giudicante la trasmissione degli atti alla Procura di Roma”. Trasmissione confermata in seguito dalla Corte d’appello.
Nel giugno ’87 scade il faticoso incarico a Rovigo, e per Sgarbi (nel frattempo promosso, per meriti acquisiti sul campo, “direttore storico dell’arte”) si tratta di tornare a lavorare alla Soprintendenza. Lavorare si fa per dire: una lunga serie di fantomatiche malattie e impedimenti lo terrà lontano dall’ufficio “praticamente senza soluzione di continuità dal giugno ’87 al gennaio ’90 […]. Fatta eccezione per i giorni 5-9-87, 23-6-88 e 24-6-88, lo Sgarbi è assente per malattia, per recupero festività e per aspettativa eccezionale”. In pratica, in tre anni mezzo, Sgarbi lavora tre giorni. Ma per sua fortuna le assenze truffaldine fino al 25 ottobre ’89 sono coperte dall’amnistia del 1990 (“beneficia della declaratoria di improcedibilità per amnistia per il reato di truffa aggravata e falso ai danni dello Stato”). È comunque istruttivo riportare integralmente la cronologia delle truffe sgarbian-ministeriali ricostruite, nella sentenza di primo grado:
13-10-88/12-10-89: un anno di aspettativa senza assegni per motivi di famiglia (provv. del ministero del 22-11-88);
9-9-89: domanda di aspettativa senza assegni per motivi familiari per 3 mesi (dal 13-10-89 al 12-1-90);
13-10-89: certificato medico per tre mesi;
13-1-90: certificato medico per 32 giorni;
30-1-90: telegramma della soprintendente con invito a chiedere congedo o aspettativa in relazione al certificato del 13-1-90;
30-1-90: visita fiscale (h. 17,30) in cui risulta assente;
1-2-90: domanda di congedo per 32 giorni (dal 13-1-90 al 15-2-90);
12-2-90: domanda reiterata di congedo per motivi di salute (rettificata dal 12-1-90 al 12-2-90);
13-2-90: visita fiscale (h. 18,10) in cui viene giudicato idoneo a riprendere il lavoro dal 14-2-90 (in contrasto con certificato dello stesso giorno);
13-2-90: certificato medico (dott. Zamboni) per 30 giorni;
14-2-90: domanda di congedo per motivi di salute (vedi certificato dott. Zamboni) per 30 giorni;
20-2-90: parere-decisione del Consiglio di amministrazione del Ministero dei Beni culturali per una proroga ulteriore di mesi 3 per motivi di salute (dal 13-10-89 al 13-1-90);
28-2-90: fono del ministero alla Soprintendenza per invitare Sgarbi a fare la domanda corretta;
3-3-90: esplicito invito della Soprintendenza a Sgarbi a chiedere con urgenza la proroga eccezionale aspettativa nella quale possono rientrare le sue assenze dal servizio dal 13-1-90 e dal 13-2-90 non computabili (secondo la nota ministeriale del 28-290) come congedi straordinari, essendo già stata concessa proroga eccezionale aspettativa di mesi 3 a partire dal 13-10-89;
7-3-90: la Soprintendenza fa rilevare al ministero la contraddizione tra il certificato medico del 13-2-90 e la visita fiscale dello stesso giorno;
5-3-90: domanda di proroga eccezionale aspettativa (riproduce esattamente quanto contenuto nell’invito del ministero del 3-3-90). Non indicato il termine di fruizione del beneficio (periodo richiesto: dal 13-1-90 e dal 13-2-90);
12-3-90: certificato medico per 30 giorni;
13-3-90: domanda di proroga eccezionale aspettativa per un mese (dal 13-3-90 al 13-4-90) con allegato il certificato precedente;
21-4-90: decreto del Direttore generale del ministero che concede l’aspettativa per motivi di famiglia dal 13-10-89 al 12-1-90;
6-5-90: certificato medico per 20 giorni;
11-5-90: domanda di congedo per 20 giorni dal 6-5-90, con allegato precedente certificato medico;
31-7-90: viene emesso un parere vincolante favorevole a un ulteriore periodo di proroga eccezionale dal 13-1-90 al 12-4-90 senza specificare per quali motivi, ma richiamando lo stato di salute e omettendo di considerare espressamente il periodo 13-1-90/5-3-90;
9-10-90: il Consiglio di amministrazione concede “in via del tutto eccezionale e definitiva” la proroga dell’aspettativa;
26-11-90: decreto del Direttore superiore della Soprintendenza che concede il congedo straordinario per motivi di salute dal 6-5-90 al 25-5-90;
23-1-91: decreto del Direttore generale del ministero che concede l’aspettativa per motivi di famiglia dal 13-1-90 al 12-4-90 (90 giorni).
Il malato immaginario
Sgarbi viene processato e condannato per il periodo non coperto dall’amnistia: poco meno di 6 mesi di assenze ingiustificate. Divisi in due fasi: dal 13 ottobre ’89 al 12 gennaio ’90 e dal 13 gennaio al 12 aprile ’90. La prima, per imperscrutabili “motivi di famiglia”, col supporto di certificato medico compiacente del dottor Zamboni. La seconda, senza neppure la domanda dei motivi di famiglia né il certificato medico (che verrà inviato in un secondo tempo). “Lo Sgarbi sino al 4-3-90 risulta aver tratto in inganno la Pubblica amministrazione, e partitamente la Soprintendenza, che erroneamente lo ha ritenuto legittimamente impedito a svolgere le sue funzioni lavorative a causa di malattie che piú volte sono state dallo stesso falsamente documentate. E ciò è accaduto finché non è intervenuto, sua sponte, il ministero che chiedeva alla Soprintendenza di invitare lo Sgarbi a modificare la domanda da richiesta di congedo in richiesta di aspettativa, con passaggio di competenza alla Soprintendenza al ministero […]. È ovvio che quando Sgarbi accoglie il “suggerimento” del ministero viene meno cosí dal 5-3-90 la idoneità all’inganno”: nel senso che il ministero decide ufficialmente di farsi turlupinare, e Sgarbi saggiamente ne approfitta per qualche altro mese.
È lui stesso a spiegare i retroscena della truffa, vantandosi di essere un raccomandato di ferro e tracciando un edificante quadretto dell’illegalità che regnava al ministero dei Beni culturali: “Il ministero non si è mai doluto per il mio lavoro; nessuno si è mai lamentato che non facessi il mio lavoro, pur assente […]. Quale fosse la mia attività durante il periodo di aspettativa, i ministri lo hanno oscuramente intuito […]. Avevo una intrinsichezza [sic] continua con i ministri Facchiano e Bono Parrino […]. Ero d’accordo col Direttore generale per far apparire come motivi di famiglia le successive aspettative, perché erano esauriti i tempi dell’aspettativa per motivi di salute […]. Le causali delle mie aspettative erano suggerite dalla mia segreteria […]. Devo ad Andreotti, che, a quel tempo, era ministro ad interim dei Beni culturali, se non sono stato licenziato, e alla fine lo stesso mi dà un mese di sospensione che sia in qualche modo conclusivo di tutta la vicenda”.
Scrive il giudice che “nettamente differenziata appare la condotta della Soprintendenza da un lato – positiva ed encomiabile – rispetto a quella del Ministero, nel cui comportamento anzi vi sono indizi di reità”. Una serie di atti “illegittimi”, che configurano veri e propri “falsi in atto pubblico”, ad opera del direttore generale del Ministero e forse di altri funzionari. A questo proposito, ancor piú dura sarà la sentenza della II sezione della Cassazione (presidente Francesco Simeone): “Non è dubbio che lo Sgarbi […] abbia goduto nell’ambito della Amministrazione di appartenenza di ampia simpatia e considerazione che si sono tradotte in comportamento al limite dell’abuso: consigli e suggerimenti volti a giustificare amministrativamente l’assenza dal servizio che, non provenendo dall’organo competente a manifestare nella specie la volontà dello Stato, hanno oggettivamente contribuito a perfezionare i mezzi fraudolenti idonei a trarre in errore la persona giuridica pubblica”. In pratica, i vertici del Ministero hanno aiutato Sgarbi a truffare lo Stato, visto che, essendo solo e alle prime armi, rischiava di farsi scoprire. Infatti “il 21 aprile ’90 il direttore generale del Ministero faceva figurare, contrariamente alla deliberazione del Consiglio di amministrazione, che l’aspettativa era stata concessa per motivi di famiglia”.
Per giustificare lo scandalo, Sgarbi inventa le scuse piú puerili. La prima è da asilo infantile: io volevo lavorare, ma gli altri non me lo permettevano. “Dal 1987 – dice – alla fine del distacco a Rovigo, ero impossibilitato a esercitare la mia funzione perché non c’erano finanziamenti. I finanziamento negli anni 1987-88-89 erano inesistenti, per cui io non potevo lavorare. Cominciai un pellegrinaggio presso la Soprintendenza e il Ministero, perché io volevo poter fare il mio lavoro anche contro la volontà dello Stato. Non c’era niente da fare a Venezia, nella sede della Soprintendenza, e allora ho continuato a lavorare restandomene a casa, presentando diversi certificati medici”. Frottole anche quelle: come testimonia la soprintendente, “i soldi il ministero li ha stanziati annualmente”, e di lavoro ce n’era a bizzeffe. Bastava avere voglia.
Sgarbi sostiene poi di essersi portato il lavoro a casa, restando – a suo dire – “dentro la mia funzione istituzionale”. Il risultato è un fondamentale volume dal titolo “P. Brandolese del Genio de’ Lendinaresi per la pittura”, edito da Minelliana nel 1990. Opera fortemente voluta, a suo dire, dalla Soprintendenza e dunque realizzata per dar lustro a quell’ente fino ad allora condannato all’anonimato. Balle, solennissime balle. Di quel best-seller la Soprintendenza non sapeva nulla, non se ne faceva nulla, non ne aveva mai sentito l’esigenza. E non l’aveva mai autorizzata. Infatti era stata “commissionata allo Sgarbi dal presidente del Premio Campiello, dott. Cibotto”. E per giunta Sgarbi l’aveva scritta scopiazzando “alcune schede di catalogo provenienti dalla Soprintendenza”. “La Soprintendenza – conferma la Gaudioso – non ha partecipato in alcun modo a questo lavoro. Lo Sgarbi ci ha solo chiesto nel 1986 di poter consultare le schede di Lendinara”. Poi firmò il libro come se fosse tutta farina del suo sacco, senz’alcun riferimento alla Soprintendenza. Il pretore concorda col pm: “era sostanzialmente un’opera redatta da un privato e senza la spendita del nome del Ministero, ma fatta in nome proprio e risultando cosí tutelato quello stesso nome [di Sgarbi] in base al diritto di autore”. Impossibile dunque “compensare il danno subíto dallo Stato” per il suo assenteismo con quel lavoro.
Una sindrome intermittente
In ogni caso, nonostante l’imprescindibile importanza dell’opera sul Brandolese, ci vuol altro per giustificare tre anni e mezzo di latitanza. A questo punto Sgarbi fa scattare il piano B: l’alibi della terribile malattia, della rarissima patologia a base di sinusite, vertigini, artrosi e un velo di cimurro che martoriava il gracile corpo del Genio. Un’affezione, per giunta, intermittente: fortissima proprio nell’orario di lavoro, praticamente inesistente prima e dopo. Quando si dice la combinazione. “Io – assicura Sgarbi al giudice – ho una grande energia solo in alcune ore del giorno. Se fossi rimasto in ufficio dalle ore 8 alle ore 14 avrei fornito una prestazione parziale. Il senso di quei certificati era quello di evidenziare la mia inabilità manuale”. D’altra parte, trattandosi di un Genio, non può certo essere giudicato “dal rispetto dell’orario”, come un comune mortale: “Io non dovevo effettuare una prestazione quantitativa, ma qualitativa”. E se i suoi superiori, vecchi e antiquati burocrati, non arrivavano a cogliere “la modernità di questo mio atteggiamento”, non è certo colpa sua. Anzi, “è mio compito intervenire duramente contro i miei capi gerarchici, anche contro la disciplina d’ufficio, in caso di errori culturali. Io non ho mai rispettato l’autorità che non fosse autorità morale e del Sapere”. Conclusione: “Non sono io che traggo prestigio dalla carica di ispettore dell’arte, ma è quella carica che trae prestigio da me Vittorio Sgarbi”.
La pochade delle malattie fasulle tiene banco al processo per diverse udienze. Sgarbi ammette che le ragioni di salute erano “suggerite dalla mia segreteria” per giustificare in qualche modo le assenze. Ma ci sono i certificati firmati dal suo medico, che lo dipinge come una specie di enciclopedia delle malattie. Qualche esempio. “Dichiaro che il prof. Vittorio Sgarbi, per la presenza di un quadro di sindrome neuroastenica in soggetto con diatesi allergica, necessita di mesi 3 (tre) di cure e riposo medico sotto stretto controllo medico” (13-10-89). “Certifico che il prof. Vittorio Sgarbi, per la presenza di un quadro di crisi vertiginose parossistiche in iniziale cervico-artrosi accompagnate da ipotensione posturale, necessita di giorni 32 di cure mediche e riposo” (13-1-90). “Certifico che il prof. Vittorio Sgarbi, per la presenza di un quadro di crisi vertiginose in cervico-artrosi, necessita di giorni 30 di cure mediche e riposo medico” (13-2-90). “Certifico che il dotto Sgarbi, per la comparsa di cervicalgia e crisi vertiginose, necessita di giorni 30 di cure mediche” (12-3-90). Per non parlare della “ipoacusia destra”. Malattie che, secondo il giudice, anche se fossero vere, “non avrebbero motivato un periodo di astensione dal lavoro di circa sei mesi”, essendo del tutto compatibili con “l’espletamento di quella attività intellettuale” che Sgarbi doveva svolgere. In ogni caso erano false anche quelle. Tant’è che non furono “mai accertate e mai curate”. E “dello “stretto controllo medico” non s’è rilevata traccia”.
Quel po’ po’ di quadro clinico si manifestava magicamente soltanto dalle 8 alle 14: orario d’ufficio. Senonché la “visita” del dottor Zamboni del 19 febbraio ’90 avviene alle 20 della sera, quando in teoria i sintomi dovrebbero essere scomparsi da un pezzo. E sfortuna vuole che alle 18,50 di quello stesso giorno Sgarbi abbia già ricevuto la visita del medico fiscale: il quale l’ha trovato sano come un pesce e “idoneo a tornare a lavorare”. Ma Sgarbi “inspiegabilmente” si dimentica di avvertire il suo dottore. E questi, pover’uomo, non si avvede della guarigione del paziente e si becca l’incriminazione. Alla fine il giudice, pietosamente, lo assolve: è vero – osserva – che un medico degno di questo nome non si limita a trascrivere quanto gli racconta il paziente (altrimenti il medico potrebbero farlo tutti, anche i non laureati); ma “la falsa attestazione dell’esistenza della malattia di volta in volta descritta nei vari certificati è da addebitare alla condotta ingannatrice di Sgarbi”. Il quale, semplicemente, recitava. E dettava. Insomma, turlupinava anche il suo amico medico. Il quale, in barba alle “regole deontologiche”, si limitava a registrare.
In aula, dopo aver fatto slittare il processo a dopo le elezioni del 27 marzo ’94 (prima si diceva “impedito” a presenziare alle udienze, per imprecisate “minacce subíte durante la campagna elettorale”), Sgarbi ripete daccapo la pantomima del malato immaginario: “Io raggiungo la pienezza delle forze fisiche nelle ore pomeridiane, nel cuore della notte”. Strano – osserva il giudice – visto che le udienze si tengono al mattino, e l’imputato manifesta “perfetta padronanza e lucidità anche in orario antimeridiano”. Anche il povero Zamboni, completamente soggiogato dalla personalità sgarbiana, fa la sua bella figura in aula, assicurando di essere “sicuro” delle sue diagnosi, e spiegando di non aver mai sottoposto il paziente a esami perché “chi troppo cerca e approfondisce si allontana molto spesso dalla diagnosi”. Lo stesso Sgarbi lo sputtana pubblicamente, fornendo versioni continuamente diverse che alla fine demoliscono il grottesco quanto generoso sacrificio del giovane medico.
Il pretore fa visitare l’imputato da un perito (che rileverà soltanto una lieve ipoacusia, del tutto “normale”, un po’ di rinite e un filo di artrosi cervicale). Davanti al quale Sgarbi ne inventa un’altra delle sue: “Io la mattina comincio a starnutire e non finisco piú”. “Lo Sgarbi – chiosa il giudice – forniva una nuova versione, non piú facendo riferimento a quanto detto nel certificato, e cioè alla asserita vertigine, ma riferendo di essersi dovuto assentare dal servizio a seguito di “un’allergia da matrimonio”. Ha raccontato l’imputato, al riguardo, un episodio: una scenata di gelosia operata da una ragazza nei confronti di un’altra mentre questa era in sua compagnia. La prima avrebbe tagliato una treccia alla seconda. “Colpito” dall’episodio – sempre a detta dello Sgarbi – egli, successivamente e conseguentemente, si sentí di chiedere alla ragazza “lesa” di unirsi in matrimonio con lui. Nell’attesa della risposta, lo Sgarbi ha riferito di aver fatto un bagno in mare e di aver cominciato a starnutire appena uscito dall’acqua. E cosí concludeva poi a tale riguardo: “Dovevo essermi preso un’allergia da matrimonio”…”.
Il racconto è talmente demenziale da mettere in imbarazzo i suoi stessi avvocati, che cercano di minimizzare il colpo di scena con una battuta di spirito. “La difesa sul punto – si legge nella sentenza – ha sorriso e minimizzato su tale versione, affermando che presumibilmente lo Sgarbi la mattina si era alzato ed era andato quindi dal medico, al quale avrebbe cosí riferito di starnutire o raccontato della allergia da matrimonio – interpretazione e versione dei fatti rispetto ai quali lo Sgarbi annuiva e assentiva. Alfine la difesa si chiede, in forma residuale e chiaramente ironica, se non si fosse trattato di una “allergia da libri”…”.
Costretto a occuparsi anche dei presunti starnuti del Genio, il giudice conclude che anche quella è una bufala sesquipedale: “I periti, in ordine al disturbo di rinorrea mattutina, hanno evidenziato che il periziato, durante l’accertamento iniziato alle ore 10,30, non aveva mai starnutito né si era soffiato il naso. Solo dopo aver descritto la sua sintomatologia lo Sgarbi aveva iniziato a fare uso di fazzoletti di carta. Comunque, se fosse stata vera detta malattia, lo Sgarbi ben avrebbe potuto operare nell’ambito di un lavoro che gli permetteva anche di uscire dal territorio, fuori dal “critico” orario 8,00-14,00 […], potendo organizzare e dividere l’attività stessa come riteneva piú opportuno”. Già. Ma non avrebbe potuto fare tante altre cose carine che invece, mentre soffriva di tutti i mali dell’universo, riuscirà stoicamente a portare a termine: “oltre alle sue ripetute note apparizioni televisive, lo Sgarbi pose in essere una rilevantissima produzione scientifica, storico-artistica, attraverso il costante lavoro che è poi documentato in numerose pubblicazioni, la cui produzione è rilevante anche nei periodi in cui lo stesso afferma di essere stato affetto da malattia. Lo stesso, nell’anno 1989, ha pubblicato con la Rizzoli il noto scritto d’arte “Davanti all’immagine” (XXXVIII Premio Bancarella), nonché “La stanza dipinta” edito dalla Novecento”.
La “continuata attività falsificatrice e la condotta truffaldina di Sgarbi”, secondo il giudice, hanno danneggiato la Pubblica amministrazione, nella fattispecie la Soprintendenza: infatti “la conoscenza dell’inesistenza di malattie tali da giustificare un’assenza cosí continuata del dipendente non avrebbe potuto che comportare la dichiarazione di decadenza dall’impiego”. Cioè il suo licenziamento in tronco: “provvedimento questo che, per legge, consegue a una assenza arbitraria superiore ai 15 giorni”. Figurarsi per Sgarbi, che non ha lavorato per tre anni e mezzo. “Quindi la Pubblica amministrazione non è stata posta in grado di esercitare i propri poteri di autotutela […]. E la illegittima conservazione del posto da parte di Sgarbi, con la sua attività truffaldina, ha impedito che la Pubblica amministrazione potesse disporre dello stesso”. Rimpiazzandolo con un altro funzionario che, a differenza di Sgarbi, lavorasse.
Voleva la poltrona, non il lavoro
Un solo soggetto, in questa tragicomica vicenda, ci ha guadagnato: Sgarbi. “Il suo profitto morale e materiale è consistito nell’aver illecitamente conservato il posto di lavoro, mantenendo la carica e la qualifica di storico dell’arte presso la Soprintendenza di Venezia”. Cosa che lui stesso voleva fortemente, avendo ammesso di tenere parecchio “a essere un funzionario statale, a non voler lavorare come privato”, e di avere tutto l’interesse a “mantenere il mio rapporto istituzionale, a conservare il simbolo della mia funzione pubblica”. Insomma, voleva la poltrona, ma non le regole. Il posto di lavoro, ma non il lavoro. All’italiana.
Il processo di primo grado si chiude il 22 giugno ’94 con l’imputato Sgarbi che chiede di rendere una dichiarazione pubblica di stima nei confronti del giudice. Gli esterna la propria “naturale ammirazione e stima” e sottolinea come “apparisse giustificata l’ampia trattazione processuale dedicata a una vicenda giuridicamente complessa come questa”. Insomma, tenta di arruffianarsi il pretore. Inutilmente, visto che porta a casa 6 mesi e 10 giorni di carcere.
E ancor piú dure, se possibile, sono le sentenze della Corte d’appello di Venezia (8 gennaio 1995) e della Cassazione (12 luglio ’96), che rendono definitiva la condanna e fanno di Sgarbi un pregiudicato. Per i giudici d’appello, il professore “si è posto in modo sprezzante al di sopra della legge, sconfessando tra l’altro ingenerosamente la puntigliosa e faticosa difesa del coimputato Zamboni”. E, mentre era “malato” per lo Stato, “lavorava ovviamente per il suo esclusivo interesse”, come dimostra “la sua frenetica attività televisiva”. E non solo quella. La Corte si diverte a ricostruire una settimana-tipo del malato immaginario (nel periodo coperto da amnistia): “Sabato 9 settembre 1988, nozze di Bianca di Savoia nei pressi di Lucca; domenica a Lucca e la sera a Vallombrosa; lunedí a Milano per l’inaugurazione di due mostre; martedí sempre a Milano, con sopralluogo a un laboratorio di restauro e visita a tre mostre, con rientro a Ro Ferrarese in serata; mercoledí raccolta di materiale fotografico sulla Certosa di Ferrara per un prossimo convegno; giovedí mattina riunione per l’allestimento di una mostra, la sera cena in onore dei Rettori delle università del mondo e, dopo cena, a Firenze per l’inaugurazione di un’altra mostra; venerdí mattina sempre a Firenze per una lettura della mostra e la sera a Mantova per uno spettacolo di balletti”. In quel periodo, naturalmente, Sgarbi non lavorava: dai certificati medici risultava ridotto allo stato larvale, essendo affetto contemporaneamente da “crisi recidivanti di broncospasmi con rinofaringite subacuta e modesta sinusite”. Un’autentica tragedia che richiedeva, a detta del medico, i soliti “30 giorni di terapia adeguata e riposo”. Soprattutto riposo.