Il mio post d’esordio qui sul blog del Fatto, la settimana scorsa, era dedicato ai giovani in politica e nelle istituzioni – troppo pochi per rappresentare una generazione, e ostacolati per giunta da meccanismi che rendono ancor più difficile farli entrare in Parlamento. La coincidenza ha voluto che questo fosse un periodo di campagna elettorale per una consultazione, quella amministrativa, che a differenza dell’altra prevede la possibilità per i cittadini di esprimere preferenze. Da lì il suggerimento che poi è diventato anche il titolo: giovani, votate i giovani.
È chiaro che non intendevo dire che qualsiasi giovane vada bene, né che un neolaureato sia necessariamente migliore di un pensionato. Volevo però suggerire che un modo per svecchiare la politica e convincere le istituzioni a occuparsi dei problemi delle nuove generazioni è proprio quello di metterci dentro 20-30enni validi e preparati, in grado di portare avanti battaglie innovative e non solo di preservare l’esistente. Persone in grado di guardare lontano, al posto dei soliti 60-70enni.
I commenti al post sono stati tanti; alcuni molto scettici, di persone convinte che ai ragazzi la politica non interessi, che vivano in un mondo superficiale e disimpegnato, e che dar loro responsabilità di rappresentanza sarebbe da pazzi. Altri hanno invece rivendicato la capacità di molti di impegnarsi, sottolineando che è più facile che un giovane difenda i diritti dei suoi coetanei, piuttosto che lo faccia un anziano nato e cresciuto in un’altra epoca, e per questo – salvo eccezioni – poco proiettato al futuro.
Io condivido questa impostazione, e ora che si sono chiuse le elezioni comunali (almeno il primo turno) racconto una storia. La storia di Pierfrancesco Maran. Una storia come tante, una storia di giovani, impegno e politica. Maran oggi ha trent’anni, tra pochi giorni ne farà trentuno. Si è presentato per la prima volta alle elezioni comunali di Milano nel 2006, quando ne aveva venticinque; allora era nella lista dell’Ulivo e portò a casa 1.480 preferenze. Abbastanza per entrare a Palazzo Marino. E non per “diritto dinastico”, non avendo genitori o parenti in politica. Non per meriti estetici né per favori sessuali elargiti. E non per il fatto di essere il portaborse di qualche politico nazionale desideroso di piazzare il suo delfino.
In cinque anni Maran si è speso su molti temi che riguardano i suoi coetanei, dal wifi ai trasporti pubblici. Non è un santo, non è un eroe, non è un genio: è un giovane che si impegna in politica, che studia, che prende sul serio il suo lavoro e il compito di rappresentare i cittadini milanesi. Su Facebook aggiorna in maniera costante il suo status dando informazioni su quel che succede durante i consigli comunali, le sedute di bilancio, le proposte che presenta. Il suo impegno ha pagato, e oggi Maran può essere più che soddisfatto. Si è ripresentato alle elezioni, stavolta nella lista del Pd che sosteneva Giuliano Pisapia, e ha portato a casa un numero di preferenze esorbitante: 3.530.
Sopra di lui, contando non solo lo schieramento di centrosinistra ma tutte le liste, ci sono solo quattro “outsider” che hanno ottenuto più preferenze: il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, Stefano Boeri che era il candidato sindaco sostenuto dal Pd alle primarie, il leghista Matteo Salvini e Riccardo De Corato che è vicesindaco della città da un oltre un decennio. Attenzione: esprimere la preferenza alle elezioni non è una cosa semplicissima, tanto è vero che lo fa una minoranza degli elettori. Perché non basta mettere una croce su un simbolo: bisogna scrivere di proprio pugno il cognome del candidato prescelto, e quindi avere la precisa volontà di indicare quello, e non un altro, come proprio preferito nella corsa al Consiglio comunale. Con il sistema delle preferenze si abbatte, tra l’altro, lo strapotere dei vertici del partito rispetto ai candidati da far eleggere. Sono veramente i cittadini a dare il mandato, nominalmente.
Io dico che il fatto che in una città come Milano un trentenne sia riuscito a convincere 3.530 persone a scrivere il suo nome sulla scheda elettorale fa ben sperare.