Nell’impervia eccentricità della sua trasmissione, forse inconsapevolmente, Vittorio Sgarbi ha espresso almeno due grandi verità che sono sfuggite ai suoi detrattori troppo accaniti a sbeffeggiarlo.
In primo luogo, con il suo elogio del paesaggio inteso come presepe, il padre di tutti i polemisti ha fatto una poderosa sintesi dell’idea di tradizione nella nostra cultura.
Quella che, l’anno in cui Sgarbi cominciò a guardare la televisione, Elémire Zolla eccellentemente illustrava nel suo saggio Che cos’è la tradizione, denunciando come l’uomo abbia perso ogni purezza da quando si è messo a costruire case per sé e non più solo templi per il suo Dio.
Fu l’inizio della cementificazione. Sgarbi ammira il bello, della natura e di Dio, non dell’uomo che crede nel progresso e quindi nel futuro distruggendo il senso dell’eterno. «Ammirare l’uomo è occupare il posto un tempo proprio al suo cane», ha scritto ancora Zolla.
Ultimo aristocratico da Ancien Régime, Sgarbi non ha timore di esporre la sua testa decollata dalla ghigliottina della modernità. Ghigliottina eolica, s’intende.
In secondo luogo, ripercorrendo il florilegio delle sue invettive, Sgarbi ne riavvolge per sempre la bobina, ne fa i titoli di coda di un’epoca e segna così la morte del genere.
Involontariamente compone una lista alla Saviano che, nelle sue mani, elencando esaurisce. L’insulto come strumento di persuasione, nella clamorosa cilecca milanese trova la sua fine e Sgarbi la coglie.
Con istintiva tempestività e inusuale garbo, tira il sipario sullo sbraitare di un ventennio. Ma verrà ora l’otium, la quiete contemplativa tanto auspicata da Zolla?