Habemus Capa. Venerdì 20 al Fuori Orario di Gattatico (Reggio Emilia), arriva il ragioner Salvemini, in arte Caparezza, con il suo rap zeppo di calembour, controsensi, stravolgimenti e riadattamenti dei luoghi comuni della nostra tradizionale vulgata. Con Il sogno eretico, suo ultimo album ha già raggiunto il disco d’oro in due mesi e continua ancora a giocare con le parole alla velocità della luce e con testi chilometrici in cui accosta termini che si somigliano, concetti che si avvicinano, come fosse un Tarzan della giungla pop contemporanea che salta da una liana all’altra. Leggere l’incipit di Il sogno eretico, per credere: “Sono una donna e sono una santa, sono una santa donna e basta, sono stata una casta vincente prima che fosse vincente la casta. Dalla Francia la Francia difendo, se l’attacchi la lancia ti fendo, estraggo la spada dal cuoio, polvere ingoio ma non mi arrendo, gli inglesi da mesi vorrebbero la mia capoccia in un nodo scorsoio, ohio! Sono un angelo ma, con loro mi cambierò in avvoltoio, ohio! Vinco una guerra contro l’Inghilterra non è che ando cohio, cohio! Perchè sento le voci che non sono voci di corridoio, ohio!”. Reuccio della parlatina contemporanea per acclamazione.

E’ uscito mercoledì 18 in lingua originale al cinema Lumiere di Bologna, e ci rimane per tutto il weekend almeno, il capolavoro cinematografico del nuovo millennio: The tree of life. Film che va subito visto senza stare ad ascoltare il fidanzato che vuole vedere l’ultima partita di calcio della stagione o la fidanzata che vuole correre al mare perché Terrence Malick, cinque film in trent’anni di carriera, in due ore e rotte, racconta le origini della vita umana sulla terra. E lo fa con una grazia e un rigore estetico da fare spavento. Qualcuno potrà avere qualcosa da ridere dal minuto dieci al minuto venticinque quando si perdono le tracce di Brad Pitt e famiglia per seguire cellule, animali, mari e rocce, spazi cosmici, dinosauri che della mascella hollywoodiana più sovraesposta dai rotocalchi delle palestre, sono semplicemente gli antenati. Il resto è sinfonia visiva e narrativa dagli echi biblici, dal dolore palpabile; uno stile in controtendenza con i canoni classici dell’inquadratura cinematografica (osservate da dove inquadra i corpi Malick, qualcosa come ad altezza fianco) a cui si risponde solo con un umile grazie. Imperdibile.

Venerdì 20 al Pjazza Club di Rimini e domenica 22 al Lismore Irish Pub di Faenza suona il chitarrista Randy Bernsen, da vent’anni assente dai palchi italiani. La formazione è quella del trio: Bernsen alla chitarra elettrica, il pianista bolognese Emiliano Pintori all’organo hammond, il romano Massimo Manzi alla batteria. Bernsen oggi cinquantasettenne, dalla fine degli anni ’70 ha accompagnato e accarezzato il sax di Wayne Shorter, l’armonica di Toots Thielemans, ma soprattutto era in mezzo al giro di Joe Zawinul, fondatore dei Weather Report. Il rametto jazz a cui si rifanno Bernsen e tutti lorsignori citati è la fusion: potenti dosi di strumenti elettrici e strumentazione elettronica nell’eseguire, gorgheggi funk ad arieggiare la struttura e l’accompagnamento dei brani. Non per tutti i gusti (per esempio il mio che al massimo si ferma a Chick Corea con il Fender Rhodes) ma sicuramente da scoprire per l’ariosità e la solarità di un jazz che pare scritto per accompagnare gli aperitivi sulla spiaggia in pieno luglio.

Domenica 22, ore 21, al teatro Rasi di Ravenna torna in scena Fabbrica di Ascanio Celestini. Il regista de La pecora nera se ne sta in scena seduto su una sedia, con dietro gabbie e voliere, e con il suo monologare ipnotico e appassionato, plasma un racconto teatrale in forma di lettera. Missive che alla fine della seconda guerra mondiale un operaio spedisce alla madre raccontando il suo lavoro in un altoforno. Questione di “memoria” anzi di “ricordi” che servono non per nostalgia ma per sopravvivere oggi con coscienza (di classe?). Involontari echi ternani sulla famigerata Thyssen Krupp. Per chi l’ha perso in passato occorre rimediare subito.

Ci sono anche…

Dal 20 al 22 maggio, al cinema Lumiere di Bologna il festival Divergenti organizzato dal MIT (Movimento dell’Identità Transessuale). Numerose le anteprime proposte tra cui il documentario spagnolo Guerriller@s, che racconta l’esperienza di un gruppo di militanti sull’identità di genere, e lo svedese Regretters, in cui due uomini sessantenni si confrontano sulla propria esperienza di essere diventati donne per poi tornare uomini. Inaugurazione venerdì 20 con Glen or Glenda, straordinario b-movie diretto da Ed Wood Jr. nel 1953, quando il nostro amava travestirsi da donna nella vita quotidiana e pensava di sensibilizzare il creato sul tema.

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