I lavoratori dell'impianto Enel sul delta del Po contro la sentenza che annulla la valutazione d'impatto ambientale favorevole alla riconversione dal gas al carbone
I giudici di Palazzo Spada, che devono ancora depositare le motivazioni, hanno infatti accolto un ricorso presentato da ambientalisti (Greenpeace, Wwf e Italia Nostra), e da una serie di soggetti pubblici e privati del Polesine che temono gli impatti ambientali del carbone. Risultato immediato: congelamento dell’investimento da 2,5 miliardi da parte di Enel, che in questo caso ha adottato il metodo Fiat, ventilando l’ipotesi di traferire tutto all’estero se il piano non passa. Essendo controllato dallo Stato, il colosso energetico guidato da Fulvio Conti qualche difficoltà a trasferirsi, magari dall’altra parte dell’Adriatico, la avrebbe. Ma non si sa mai.
Fra le due incudini i lavoratori dell’impianto, che temono di essere lasciati a casa. Ma anche i piccoli e medi imprenditori che sperano di trarre beneficio dall’indotto. “Un consiglio di Stato: giù le mani dalla centrale” recitava lo striscione che ha aperto la manifestazione organizzata settimana scorsa dagli operai davanti ai cancelli della centrale. Lo stesso striscione questa sera sarà srotolato in piazza Farnese.
“Non capisco perché la regione ha dato l’ok, il ministero anche e ora il Consiglio di Stato ribalta tutto – spiega al fattoquotidiano.it Maurizio Ferro, portavoce del comitato dei lavoratori della centrale – per noi è una vera tragedia, Rovigo è un territorio povero, noi ci vedevamo una grande opportunità di sviluppo. Il Gas, è vero, sarebbe stato possibile, ma consideriamo che noi in Italia siamo già ampiamente dipendenti dal metano e dobbiamo diversificare il mix di fonti”.
Un bel dilemma, insomma, quello che va in scena a due passi dall’area protetta del delta: proteggere l’ambiente contro un piano che riporterebbe il carbone (anche se dotato di tecnologia “pulita”) nel Parco, o salvaguardare l’occupazione e il posto di lavoro di centinaia di operai e potenziali beneficiari dell’investimento?
Il piano di riconversione per la centrale, che fino ad ora bruciava olio combustibile, oltre all’investimento da due miliardi e mezzo e alla creazione stimata di più di tremila posti di lavoro, avrebbe comportato anche l’immissione nell’atmosfera di 10,3 milioni di tonnellate di metri cubi di Co2 annui. Sempre di carbone si parla insomma, non certo una fonte pulita. Proprio per questo le associazioni ambientaliste avevano deciso di dare battaglia. Ciò su cui hanno insistito è il fatto che Enel nel piano di riconversione aveva trascurato una possibilità alternativa al carbone, quella del gas metano, meno inquinante. Soluzione che già era stata incoraggiata nel 1997 dalla legge istitutiva del Parco. La notizia dello Stop alla riconversione è stata salutata con favore dagli ambientalisti. «Finalmente sono state accolte le nostre argomentatissime ragioni giuridiche e ambientali», ha osservato il Wwf.
Con una nota Enel si è detta invece esterrefatta, così come gli industriali del Veneto e il presidente della Regione Zaia. Neanche una parola dalla Prestigiacomo, che ultimamente sulle materie di sua competenza mantiene un silenzio di tomba: per lei ha parlato il ministro dello sviluppo economico Paolo Romani. “Faremo tutto il possibile per salvare l’investimento – ha detto – perché il progetto di conversione rappresenta un tassello essenziale nell’ambito della nostra politica energetica di diversificazione delle fonti e di riduzione dell’impatto ambientale”. C’è chi obietta che parlare di riduzione di impatto ambientale in relazione ad una centrale a carbone sia quanto meno azzardato, ma il sistema di filtri e la tecnologia “carbon capture” che Enel sperimenterebbe a Porto Tolle, almeno sulla carta promettono di ridurre le emissioni. Per lo sviluppo di questa tecnologia il gruppo ha tra l’altro ricevuto un finanziamento da 100 milioni di euro dall’Unione Europea.
Storia travagliata, in ogni caso, quella della centrale. Per i danni ambientali provocati quando era azionata a olio combustibile sono stati condannati in Cassazione gli ex amministratori di Enel Francesco Luigi Tatò e Paolo Scaroni. La storia, qualcuno lo ricorderà, si intreccia con quella dell’azione disciplinare chiesta dal ministero della Giustizia di Angelino Alfano contro il pm Manuela Fasolato, che da anni investiga sui legami tra le emissioni della centrale e l’aumento dell’incidenza di malattie nei territori circostanti l’impianto. La Fasolato era colpevole in qualche modo di avere “lavorato troppo” e di avere intralciato gli interessi del colosso elettrico italiano.
“Il progetto di riconversione è nocivo eccome – ha commentato Greenpeace – e la decisione del Consiglio di Stato batte la tesi dell’Enel secondo cui la riconversione a carbone sarebbe meno inquinante di una equivalente centrale a gas”.
E allora dove sta la verità? Per certo, dopo il fallimento del piano nucleare (ma anche da prima), Enel vuole intensificare i suoi investimenti nel carbone, fonte da cui il gruppo attualmente produce il 34,1% della sua energia, contro il 34,4% da idroelettrico, il 21,6% da gas, il 7,1% da rinnovabili e il 2,8% da olio. La ragione è anche comprensibile in una ottica aziendale: il carbone costa poco e rende molto. Un po’ meno in un ottica ambientale.
“Del carbon capture (che sarebbe sperimentato in parte nella centrale, ndr) – spiega Luigi De Paoli, ordinario di politiche energetiche della Bocconi – in verità si sa ancora poco perché è una tecnologia all’inizio”.
“Sul cosiddetto carbone pulito bisogna valutare caso per caso – nota invece un esperto del ministero della Salute che preferisce mantenere l’anonimato – quel che è certo è che il carbone è sempre carbone e ha impatti ben diversi da quelli di altri tipi di fonti. Quando poi parliamo di riduzione delle emissioni dobbiamo capire di cosa parliamo veramente: spesso si parla di riduzione, ma rispetto alle quote massime consentite, ovvero livelli che sarebbe bene non raggiungere mai”.