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The tree of life: <br>una recensione

Palma d’Oro 2011. Il quinto film del misterioso Terrence Malick è la sua opera più ambiziosa. Fin dal titolo, The tree of life. L’albero della vita. Per mostrarcelo, il regista de La sottile linea rossa costruisce una sinfonia in tre movimenti con ouverture.

Attenzione, il seguito svela i contenuti del film.

Inizio: vengono messe in scena le tessere di un mosaico di cui non conosciamo ancora la totalità. America anni Cinquanta. Una famiglia: madre, padre, tre figli. La madre ricorda il supremo insegnamento: da piccola le hanno detto che esiste la Natura che è violenta e vive solo per dominare, e poi c’è la Grazia che invece è la via dell’obbedienza e del sacrificio. La via del bene. Altalene. Vialetti puliti, bambini che giocano. Poi la morte di uno dei tre figli.

Poi compare Sean Penn. Non siamo più negli anni Cinquanta. Ma nei 2000. Architetture gelide, trasparenze perfette al posto di quella piccola casetta texana da cui proviene. È il maggiore dei figli di quella famiglia. Ricorda la morte del fratello. Non l’ha mai veramente superata. L’ha solo negata. Primo movimento: l’origine del mondo e della vita. Esplosioni cosmiche. Ci sono i pesci nel mare e la fusione cellulare. Arrivano i dinosauri.

Secondo movimento: le relazioni di quella famiglia. È la parte riuscita del film. Si torna nella casetta di Waco. Scopriamo una moglie dolcissima. Un marito (Brad Pitt) autoritario. I figli adorano lei e odiano lui. Almeno fino all’adolescenza. Il più grande pensa che suo padre sia falso, perché intima loro di non fare tutto quello che lui fa. Ma sente già che la madre è solo l’ombra di ciò a cui lui appartiene essenzialmente. Dice al padre: “Io non sono come lei, sono come te”. Non assomiglio alla mamma. Che si fa trattare come uno straccio. Infatti lei sopporta. Tollera. Stende i panni. Bianchi. Sventolano. Lei sa. Sopporta. Possiede la Grazia. Finché arriva l’incrinatura. La fine dell’età dell’oro americana: licenziamento di lui, addio alla casa di Waco. Poi la morte che sappiamo.

Ultimo movimento: ritorno al presente. Ritorno a Sean Penn. Che avevamo lasciato appeso a chiedersi “Chi sei? Dove sei?”. Perché mi hai abbandonato? Per chiudere il cerchio e il film, Malick fa oltrepassare a Penn la porta della vita e della morte. Dopo c’è il mare dell’eternità. Dove ritrova tutti. Mamma, papà, fratello morto. Sereni. Fine.

Eternata in una visione metafisica immobile, la famiglia americana anni Cinquanta è, evidentemente, il punto più prossimo alla verità che il regista possa immaginare. Fosse autobiografico e intimo (Malick è del 1943), nulla da dire. Ma farne una cosmogonia, sull’infanzia del regista, pare troppo. Anche perché, in questo film, il divenire – dai dinosauri a oggi – è apparenza. La Storia non conta. Non c’è differenza. Non è contemplata. E l’epoca in cui le donne ben vestite lavavano i piatti, i mariti andavano a lavorare e in famiglia avevano il pugno di ferro corrisponde alle nozze tra Natura e Grazia. Nozze crudeli, sia chiaro. Ma così è e così deve essere.

Poi tutto cambia. Ma, purtroppo, non significa nulla. Il dramma di questo film, infatti, è che Sean Penn, il figlio cresciuto, risolva con un metafora il conflitto del lutto, della fine, del cambiamento. Con frasi poetiche, immagini mistiche. Sarebbe bello saperne di più, di questo figlio divenuto adulto. Sapere che famiglia ha. Se l’eternità della Grazia e della Natura si ritrovi in qualche modo (e in che modo) nella realtà della sua vita. Se c’è una psiche e come è cambiata. Troppo facile risolvere tutto con i simboli. Con un enorme videoclip di immagini perfette, voci fuori campo (lamentose) che interrogano l’Essere. E non è tanto interessante vedere l’origine del mondo se non si spiega come finisce il conflitto interiore del protagonista. Malick non ce lo mostra. E così facendo eterna, tra una riminiscenza di 2001 e un finale alla Otto e mezzo ma triste, l’America conservatrice come entità metafisica.

Inoltre: il film parte con la morte di un figlio. E si conclude con l’accettazione della morte. Nel mezzo non c’è nessun senso dell’umano. E così sia. L’interpretazione della vicenda terrena, della sua sofferenza, è violenta perché assente. Giobbe urlava il suo dolore. Neppure la Bibbia risolve il mistero dell’ingiustizia con un lieto fine che, per come è girato qui, sembra oltre tutto lo spot di un marchio di moda. La Bibbia comprende la disperazione dell’uomo. Malick chiude tutto con una metafora. La libertà espressiva si riduce in una sequenza di musiche e lirismi, a un gioco di associazioni per cui non vale la pena scomodare Stan Brakhage. Figuriamoci Kubrick.