A partire dal 1° gennaio 2012 l’età pensionabile delle donne del pubblico impiego sarà equiparata a quella degli uomini, cioè 65 anni. Quando ha approvato questa misura, nel giugno scorso, il governo ha assicurato che le risorse risparmiate, 4 miliardi nell’arco di 10 anni, sarebbero andate ad un Fondo strategico destinato a finanziare politiche per la conciliazione tra tempi di vita e di lavoro.
Il pensionamento anticipato per le donne funzionava come una sorta di compenso per il lavoro prestato tra le mura domestiche, non rintracciabile nella storia contributiva, e il governo avrà pensato di poter sostituire quella concessione con un’altra: al posto di qualche anno di lavoro in meno, maggiori servizi per ridurre la propria presenza in casa – per monetizzare quell’impegno, per delegarlo ad altri, ad altre, alle migranti in particolare – e per lavorare di più fuori.
Peccato che la Finanziaria 2010 e la Legge di Stabilità 2011 abbiano già sottratto da quei risparmi 362 milioni di euro per coprire debiti di Comuni e Sanità pubblica e che il Fondo strategico non figuri nel recente Piano Nazionale di Riforma.
Per questo motivo 24 associazioni, tra cui Diversamente occupate, hanno promosso un appello per fare pressione sul governo e vincolarlo al rispetto dell’impegno preso.
E’ un inizio. Sappiamo comunque che i problemi non si risolveranno semplicemente con il recupero di quelle risorse.
La contraddizione tra la finzione di una cittadinanza neutra, uguale per uomini e donne, e l’emergere ogni volta del ruolo storico di depositarie del futuro della specie ritorna sempre a galla.
Una volta equiparate agli uomini nell’età pensionabile e nella capacità di produrre, perché la riproduzione e la cura dovrebbero essere, invece, faccenda esclusivamente nostra? E si può davvero risolvere tutto con uno scambio di concessioni, prima qualche anno in meno di lavoro, oggi l’essere individuate come destinatarie di supporti dallo Stato?
Non possiamo continuare a pensare la cittadinanza girando intorno, e continuamente evitando, questo nodo, che è poi il punto essenziale da interrogare per capire i rapporti tra i sessi nella società. E’ il nodo che sta dietro l’organizzazione dei nostri tempi di lavoro, ormai estendibili all’infinito proprio perché trascurano la questione di come si sostengono i corpi. E’ il mascherare l’impossibilità di rimuovere l’esperienza della cura – quella ricevuta o da ricevere e quella che offriremo ad altri – dalle nostre vite di donne e di uomini.
Non si pensi che non riconosciamo l’importanza di questi strumenti e quanto cambia avere o non avere un asilo nido pubblico, i soldi per una baby sitter o per l’assistenza ad un anziano. Lo sappiamo bene. Ma non abbiamo più voglia di sentir dire che un partito, un governo, un’amministrazione sono amici delle donne perché propongono politiche per la conciliazione: la conciliazione non è per le donne, la conciliazione serve a tutti.