Crisi dei debiti sovrani, esposizione ai titoli tossici, scarse prospettive di ulteriori aiuti statali. Bastano e avanzano questi tre elementi chiave per delineare una situazione di legittima preoccupazione presso i principali istituti bancari europei. Abbandonato da mesi l’entusiasmo post stress test – mitigato rapidamente di fronte al ripensamento della loro efficacia – le banche del vecchio continente si trovano ora a fronteggiare i timori di un contraccolpo derivante dal sempre più probabile default greco e dal relativo effetto contagio. Mentre gli speculatori si buttano a capofitto in un’operazione di rastrellamento degli assets senza precedenti e qualche governo promette già di limitare, una volta tanto, il discusso coinvolgimento dei contribuenti in altrettanto discusse operazioni di salvataggio. Un timore generalizzato, insomma, capace di aggirarsi per l’Europa come uno spettro sempre più vivido e inquietante.

L’ultimo colpo lo ha assestato Moody’s, diffondendo una nota nient’affatto beneaugurante sulle prospettive delle banche britanniche. 14 istituti d’Oltremanica sono stati posti sotto osservazione con la concreta ipotesi di un declassamento del proprio outlook. Svariate banche del Regno, in altre parole, si preparerebbero ad andare incontro allo stesso destino di Barclays, il cui giudizio di prospettiva è già stato corretto al ribasso da “stabile” a “negativo”. Nell’elenco figurano alcuni istituti di piccolo e medio calibro, ma anche grandi attori protagonisti come la filiale britannica della spagnola Banco Santander e i colossi locali Lloyds e Royal Bank of Scotland. Una presenza per niente casuale. Al centro della questione, infatti, la possibilità, per usare le parole della senior credit officer di Moody’s Elisabeth Rudman, “che le banche che dovessero fallire in futuro non potranno attendersi ulteriori iniezioni di capitali dal settore pubblico”. Tradotto: il governo di Sua Maestà non intende scaricare sui taxpayers il peso di ulteriori aiuti alle banche, già beneficiarie – tra capitalizzazioni e garanzie indirette – di un sostegno pubblico da 1.000 miliardi di sterline.

La scelta è più che motivata. Nei giorni scorsi, si è aperta ufficialmente l’aspra polemica sul mancato raggiungimento degli obiettivi di credito concesso al sistema da parte delle banche britanniche, in pratica la contropartita degli accordi di salvataggio dei giorni più tetri della crisi. La Banca d’Inghilterra aveva fissato a 19 miliardi l’ammontare minimo annuale dei crediti alle piccole e medie imprese, un traguardo mancato, si dice, per circa due miliardi. In sostanza è come se gli istituti non si fossero adeguatamente impegnati a restituire alla collettività lo sforzo di sostegno al sistema finanziario. Il pensiero corre proprio a Lloyds e Rbs, nazionalizzate di fatto agli albori del collasso grazie a 68,5 miliardi di sterline passati direttamente, sottoforma di tasse e tagli alla spesa, dalle tasche dei cittadini alle casse delle banche. Ad aprile, l’Office for National Statistics di Londra ha registrato un deficit di bilancio di circa 10 miliardi di sterline, quasi tre in più rispetto all’anno passato.

Ma a passarsela male non sono solo i britannici. Le difficoltà, infatti, si percepiscono in tutta Europa di fronte all’irrisolto problema dello smaltimento dei rifiuti tossici in mano agli istituti. Le banche, tuttora sovraesposte ai titoli della crisi, vogliono vendere a tutti i costi gli assets illiquidi più problematici e non esitano, per questo, a spalancare le porte all’orda degli speculatori. Fondi hedge e società di private equity, rivela in questi giorni il Wall Street Journal, starebbero dando vita a una colossale corsa al rastrellamento. Operatori, tra gli altri, come Fortress Investment e Marathon Asset Management, starebbero bussando alla porta delle banche di Irlanda, Germania, Regno Unito, Italia, Austria e Grecia, per acquisire a prezzo scontato (si dice fino al 50%) titoli di dubbio valore come prestiti al settore edilizio Usa o derivati compositi costruiti sui famigerati mutui ipotecari. Un’operazione “distressed” in piena regola, frutto di una convergenza di interessi: liquidare ciò che liquidabile non lo è facilmente da parte delle banche (anche in prospettiva di un adeguamento ai nuovi parametri di Basilea), acquisire crediti da riscuotere in futuro a colpi di sentenze di tribunale da parte degli speculatori (con la convinzione di realizzare una plusvalenza). Tutto tranquillo? Decisamente no.

A pesare sulla corsa all’acquisto ci sono infatti numerose incognite. La prima riguarda l’ammontare degli scambi, tuttora sconosciuto. Di certo, come ricorda il Wsj citando uno studio firmato PricewaterhouseCoopers, la principale società di consulenza del mondo, si sa che le banche europee portano in grembo circa 1.300 miliardi di dollari di assets “non-core”, ovvero non sufficientemente pregiati da rientrare nelle quote patrimoniali di prima categoria (sulla cui solidità si concentrano proprio i requisiti di Basilea). Titoli di “dubbio gusto” come, ad esempio, i 286 milioni di dollari di prestiti del settore immobiliare spagnolo (il più “gasato” d’Europa per restare nell’allegoria della bolla speculativa) ceduti da Royal Bank of Scotland Group alla società d’investimento Perella Weinberg. Oppure i 530 milioni di dollari di prestiti del mercato Usa venduti da Barclays alla CreXus Investment Corporation. Ad oggi, ed è questa la questione principale, sarebbe necessario capire quanti di questi assets in svendita siano stati contabilizzati a suo tempo con un valore nominale chiaramente superiore a quello di mercato pagato oggi dagli speculatori per accaparrarseli. Ovvero, la misura delle perdite che gli istituti europei dovranno registrare una volta conclusa l’operazione. Ma questo, ovviamente, lo si vedrà solo alla pubblicazione dei bilanci.

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