Tutto si aspettavano tranne di vedere un capannello di camici bianchi con le bandiere rosse della Cgil, i duemila imprenditori che ieri hanno raggiunto Treviso per l’assemblea di Unindustria. E non erano lì perché invitati anche loro alla marcia di protesta contro il governo in singolare unione con Emma Marcegaglia, il presidente regionale Tomat e il trevigiano Vardanega. Ma per protestare contro la notizia arrivata al mattino, quando i 146 dipendenti (95 a tempo indeterminato, 51 interinali, all’85% personale femminile) della Datalogic di Quinto di Treviso, hanno ricevuto la peggiore delle notizie: “Qui si chiude, spostiamo tutto in Vietnam e in Slovacchia. Arrivederci. Immediata è scattata l’occupazione a oltranza dello stabilimento trevigiano e uno sciopero di solidarietà negli altri quattro impianti italiani.
Una brutta notizia anche per il ministro (trevigiano) del lavoro Maurizio Sacconi, ospite dell’assise degli industriali, che è letteralmente caduto dalle nuvole. Le telefonate a Roma per avere informazioni non hanno rassicurato: l’azienda aveva già espletato tutte le formalità senza informare nessuno, nemmeno la direzione generale del ministero. Sacconi ha così accettato di incontrare dietro le quinte una delegazione di lavoratori, promettendo la rapida apertura di un tavolo negoziale, preso atto che non si tratta di una realtà manifatturiera di secondo ordine.
Datalogic, sede a Bologna e quotata in Borsa, è uno dei leader mondiali nella progettazione e produzione degli scanner per la lettura dei codici a barre, come quelli in uso nei supermercati e nei magazzini. Un’azienda solida, che fattura 400 milioni l’anno, di cui circa 80 arrivano, o meglio dire arrivavano, dalla divisione trevigiana. Che si è persino vista dare un premio di produzione del 120% nell’ultimo anno, tanto le cose andavano bene. Solo all’apparenza, però. Giovanni Viafora, segretario regionale veneto della Cgil, la definisce “un’emergenza continua, causata dall’assenza della minima politica industriale”. Se anche la spina dorsale dell’industria trevigiana continua a perdere pezzi a favore della delocalizzazione, un perché ci deve essere.
A sentire gli imprenditori locali, molti dei quali simpatizzanti leghisti, i motivi sono gli stessi per cui anche loro che rischiano ne hanno piene le tasche di Equitalia, di fisco e di una burocrazia che non funziona. La marcia di protesta dallo stadio di rugby fino alle due torri marroncine della nuova sede confindustriale nell’Appiani di De Poli e dell’archistar Botta, già in mattinata era stata declassata a semplice “camminata” da Alessandro Vardanega. Ma la presenza delle grisaglie è stata massiccia, anche a costo di beccarsi qualche insulto dagli automobilisti infuriati, rimasti intrappolati nei blocchi stradali. Nessuno striscione né bandiere, anche perché quello che dovevano dire a chi di dovere gli industriali lo avevano già detto. E se la relazione di un Vardanega in cerca di riconferma, che improvvidamente aveva chiesto un impegno a tutti i suoi per l’assunzione di giovani nelle aziende, ha avuto una buona accoglienza, la “Emma da Mantova” ha scaldato la platea che le ha regalato più di qualche applauso quando si è scagliata contro le privatizzazioni che latitano, le inutili duplicazioni di funzioni pubbliche, l’inefficienza di uno Stato esoso. Ma le migliori intenzioni, come spesso succede al termine di queste maratone confindustriali in cui tutti sono in accordo su quali siano i problemi, rimangono tali. Per cui domani sarà come ieri, eccetto che per i 146 della Datalogic.
di Massimiliano Crosato