Cinquanta, ma non li dimostra. Da cinquanta anni esatti Amnesty, la più grande organizzazione internazionale per i diritti umani, con oltre 3 milioni fra sostenitori e membri distribuiti in oltre 150 paesi e territori, combatte abusi e sopraffazioni. Solo l’anno scorso ha documentato la tortura e il maltrattamento nelle prigioni di 98 paesi.
Amnesty festeggia il 50esimo compleanno lanciando in 60 nazioni, dall’Argentina al Ghana, alla Turchia e alla Nuova Zelanda, una nuova campagna contro la repressione e l’ingiustizia chiamata “Global Call to Action” per celebrare simbolicamente la libertà rendendo omaggio ai due studenti portoghesi gettati in prigione per aver brindato inneggiando all’indipendenza. Un’ingiustizia così grande da spingere l’avvocato inglese Peter Benenson, il 28 maggio 1961, a fondare Amnesty International, un’organizzazione indipendente, imparziale e sovranazionale, per promuovere il rispetto dei diritti umani sanciti nella Dichiarazione universale del 1948.
La campagna “Global Call to Action” è accompagnata dal motto “Sii uno in più, domanda di più, agisci di più” e si concentra su sei obbiettivi per i quali la partecipazione della gente è decisiva: la libertà di espressione, l’abolizione della pena di morte, i diritti in materia di procreazione delle donne in Nicaragua, la giustizia internazionale, dopo 20 anni di violazione dei diritti umani, nella Repubblica Democratica del Congo, la lotta contro gli abusi delle industrie petrolifere del Delta del Niger e la fine dell’oppressione e dell’ingiustizia in Medio Oriente e in Nordafrica. Come ha dichiarato Salil Shetty, segretario generale di Amnesty, “da quando la candela simbolo di Amnesty è stata accesa, c’è stata una richiesta sempre crescente di libertà, giustizia e dignità, che sono diventate istanze globali. Lo dimostrano il Nordafrica e il Medio Oriente, dove le proteste evidenziano il bisogno di solidarietà internazionale in difesa dei diritti umani”.
Nel 1962 partono da Amnesty le prime missioni di ricerca in Ghana, Cecoslovacchia, Portogallo e Germania Est. Nel 1965 vengono pubblicati i primi rapporti sulle condizioni dei prigionieri in Portogallo, Sud Africa e Romania e parte la campagna “I prigionieri del mese”. Nel 1972 viene lanciata la prima delle tre campagne mondiali per l’abolizione della tortura. Ma è negli anni 1974-1980, con i rapporti sulla repressione politica in Cile, con la pubblicazione dell’elenco di 2.665 “desaparecidos”, le persone fatte scomparire in Argentina, e con il rapporto sull’uso degli ospedali e i trattamenti psichiatrici in Unione Sovietica, che Amnesty solleva un’eco internazionale e riceve una grande copertura mediatica. Nel 1977 Amnesty International viene insignita del premio Nobel per la pace. L’anno seguente riceve il premio dell’Onu per i diritti umani.
Nel 1983 esce il primo rapporto di Amnesty sugli omicidi politici commessi dai governi di tutto il mondo e nel 1996 l’organizzazione lancia una mobilitazione per istituire la Corte penale internazionale permanente, per trattare gravi reati che riguardano la comunità mondiale come il genocidio, i crimini contro l’umanità, i crimini di guerra e il cosiddetto “crimine di aggressione”, cioè un atto di aggressione, perpetrato da una persona in grado di esercitare effettivamente il controllo o di dirigere l’azione politica o militare di uno stato, “che per il suo carattere, la gravità e la portata costituisce una manifesta violazione della Carta delle Nazioni Unite”. Nel 2002 il tribunale ha potuto iniziare i lavori. Nello stesso anno, a seguito di una campagna di Amnesty, viene istituito il Tribunale penale internazionale sulla Sierra Leone.
Un’altra famosa mobilitazione di Amnesty è quella iniziata nel 2007 per la liberazione di Aung San Suu Kyi, la politica birmana Nobel per la Pace 1991 e leader della Lega Nazionale per la Democrazia, che si batte da decenni, con metodi non violenti, contro la dittatura militare in Myanmar. Nel 2009, dopo oltre 15 anni di arresti domiciliari negli ultimi 21, poco prima delle elezioni generali San Suu Kyi veniva di nuovo condannata a 18 mesi di arresti domiciliari a causa di un mormone statunitense che aveva raggiunto a nuoto la sua casa, attraversando il lago Inya. La campagna di Amnesty è terminata il 13 novembre 2010, quando Suu Kyi è stata liberata, ma continua per gli oltre 2.200 prigionieri politici birmani.
L’ultima battaglia di Amnesty ha acceso i riflettori del mondo sugli abusi, la tortura e i maltrattamenti in prigione commessi dagli organi di polizia in Mongolia. Il 13 maggio 2011 è stato rilasciato il documento finale sui diritti umani nello stato. Pochi giorni dopo è iniziata la protesta per i diritti umani della minoranza etnica mongola della Mongolia Interna, circa 4 milioni di persone che vivono nella regione autonoma della Repubblica Popolare Cinese. Il 27 maggio è sempre Amnesty che ha informato i media che in qualche area della Mongolia Interna la Cina, per reprimere il quinto giorno di protesta, ha istituito la legge marziale.
La sezione italiana di Amnesty è attivissima e conta oltre 80.000 soci. L’ufficio nazionale ha sede a Roma e vi lavorano oltre 30 persone sotto la direzione del Comitato direttivo. A livello nazionale il lavoro sui vari paesi viene svolto da strutture di volontari specializzati, i Coordinamenti, con conoscenze e competenze approfondite su paesi o su temi specifici. A livello regionale operano le Circoscrizioni, mentre i Gruppi sono diffusi in modo capillare su tutto il territorio e sono formati da attivisti che portano avanti quotidianamente il lavoro per realizzare gli obbiettivi dell’organizzazione.
È proprio la sezione italiana che nel 2008 avvia la campagna “Pechino 2008: Olimpiadi e diritti umani in Cina”, per ottenere miglioramenti sostanziali nel campo dei diritti umani in occasione dei Giochi olimpici. Nell’ambito della sua campagna “Per un’Europa senza discriminazione”, nel 2010 Amnesty aumenta il suo impegno per i diritti umani dei rom e nell’aprile di quest’anno la sezione italiana prende ufficialmente posizione contro gli sgomberi forzati di rom e sinti a Roma.